di Matteo Minelli
#AgriCulture 4
Siamo abituati a pensare ai campi come spazi in cui si sviluppa la vita; una vita organizzata, manipolata e condizionata, ma pur sempre vita. Eppure questo nostro immaginario va a sbattere con una realtà ben diversa, quella in cui i campi esistono come tristi luoghi di morte. Morte per tutte le specie vegetali diverse da quelle che intendiamo coltivare. Morte per gli animali che consideriamo nocivi. Morte per gli uomini che lavorano in agricoltura.
Morte che attraversa i nostri terreni trasportata da quei prodotti chimici che eravamo abituati a conoscere come pesticidi, fungicidi, battericidi, dissecanti e diserbanti. Composti di sintesi che oggi, in Italia e nel mondo, vengono raggruppati sotto la denominazione di “fitosanitari” o addirittura “ prodotti per la protezione delle piante”. Così, mentre la vecchia nomenclatura evocava chiaramente la natura pericolosa e il fine distruttivo di certi trattamenti, la nuova terminologia si compone di vocaboli rassicuranti, che tendono a celare la storia, l’azione e le conseguenze di tutti i “fitofarmaci” usati in agricoltura. Rispetto al terribile “insetticida”, che porta nel nome lo stesso marchio infame di parole come genocida, omicida, liberticida e via discorrendo, il buon “fitosanitario” riporta alla mente tutta una serie di immagini collegate alla tutela della salute e alla cura delle malattie. Come se i composti somministrati nei nostri campi fossero degli integratori per il benessere delle piante o al massimo delle blande cure che elargiamo solo in caso di bisogno.
Purtroppo non stiamo parlando di qualche aspirina all’occorrenza e un antibiotico ogni tre quattro anni. Stiamo parlando dell’uso sistematico, continuo e totalitario di prodotti di sintesi che per essere intellettualmente onesti ed usare correttamente il vocabolario italiano dobbiamo ritornare a chiamare con l’unica parola che li rappresenta fedelmente: veleni. In quale altro modo, se non veleno, dovremmo definire dei composti chimici intenzionalmente creati dall’uomo per uccidere altre forme di vita? Che si tratti di piante considerate infestanti, animali ritenuti dannosi, parassiti, funghi e batteri poco importa; ciò che conta è che per ognuno di questi organismi viventi esistono trattamenti specifici il cui unico scopo è porre fine alla vita. I veleni appunto.
Basta infatti conoscere, anche solo sommariamente, la storia di alcuni “fitofarmaci” per comprendere quanto vadano a braccetto con la morte, e la facciano ben oltre il mondo agricolo. Pensiamo al celebre Ddt, che viste le recenti affermazioni dell’Oms, potrebbe presto tornare di moda. Sintetizzato nel 1874 da Othmar Zeidler, ma reso celebre nel 1939 da Paul Müller, che ne scoprì’ le proprietà insetticide, nel corso del secondo conflitto mondiale fu sul punto di essere utilizzato a fini bellici dagli Stati Uniti. Poi lo stato maggiore americano per paura di ritorsioni tedesche decise di impiegarlo solo come disinfettante. Per la prima volta fu utilizzato a Napoli contro un epidemia di tifo, poi sui sopravvissuti ai campi di sterminio e sui prigionieri di guerra tedeschi. Prima di essere bandito il Ddt ebbe un tale successo negli USA da stimolare lo sviluppo di un’intera famiglia di insetticidi: gli organofosfati. Sconosciuti agli alleati fino al dopoguerra, erano stati per la prima volta sintetizzati in Germania presso la IG Farben (colosso che smembrato nel dopoguerra riportò alla luce la Bayer e la Basf), azienda nota per aver brevettato il terribile Ziklon b e aver adoperato prigionieri dei campi di sterminio tanto come manodopera grautita quanto come cavie. Nel dopoguerra, dopo essere stati condannati per genocidio, schiavitù e altri crimini, diversi dirigenti della IG Farben vennero riabilitati e collaborarono ampiamente con il governo e le industrie americane alla creazioni di nuove tipologie di organofosfati. A questa categoria appartengono il parathion, il malathion, il diclorvos il Sevin, salito alla ribalta delle cronache durante il disastro di Bophal (20.000 morti e più di 250.000 feriti), e il sarin, che, dopo essere stato utilizzato in un attentato terroristico nella metro di Tokio, viene oggi classificato come “arma di distruzione di massa”. Un’altra vicenda da conoscere è quella degli acidi 2,4-diclorofenossiacetico e 2,4,5-triclorofenossiacetico, nati come diserbanti e utilizzati negli anni cinquanta dagli inglesi in Malesia per distruggere le coltivazioni dei contadini insorti. Questi erbicidi saranno i progenitori del dinoxol e trinoxol, padri del famigerato “agente arancio”, il terribile defogliante con cui l’esercito americano ha irrorato mezzo Vietnam. La grande tossicità dei due acidi suddetti, e delle armi chimiche da essi derivate, è legata alla generazioni di diossina nel corso dei processi di produzione dei clorofenoli, famiglia a cui il 2,4-D e il 2,4,5-T appartengono.
In Italia lo sappiamo bene. Non si può, infatti, dimenticare la tragedia di Seveso, quando, il 10 luglio 1976, in una fabbrica appartenente al gruppo multinazionale Hoffmann-La Roche, un reattore destinato alla produzione di 2,4,5-triclorofenossiacetico saltò in aria, provocando l’emissione di una nube tossica di diossina che contaminò una vasta area della bassa Brianza. Incidenti simili erano già avvenuti in uno stabilimento Monsanto a Nitro in Virginia, nel 1949, e in uno della Basf, a, Ludwigshafen in Germania, nel 1953. In entrambi i casi le malattie sviluppate dagli operai presenti al momento dei disastri o accorsi per la bonifica, saranno tenute segrete.
Per chiudere il cerchio occorre ricordare che moltissime aziende multinazionali che attualmente operano nella produzione di “fitofarmaci” o nel settore agricolo hanno radici ben piantate nella terribile storia della prima guerra mondiale. La Hoechst, dalle cui ceneri alla fine degli anni novanta è nata Aventis, si occupò di rifornire l’esercito tedesco di iprite, noto anche come gas mostarda. La Du Pont era invece uno dei produttori maggiori di polvere da sparo per cannoni ed esplosivi degli Alleati. La Monsanto, infine, nel corso del conflitto si arricchì venendo prodotti chimici che servivano alla creazioni di gas bellici.
Non si tratta quindi di fare una disquisizione filosofica sull’utilizzo di un termine piuttosto che di un altro. Non si tratta di essere allergici alle convenzioni linguistiche. Si tratta di opporsi ad un’opera di mistificazione che da sempre viene posta in essere da industrie chimiche, associazioni di categoria e istituzioni compiacenti. Una manipolazione che da un lato danneggia gli agricoltori poiché rischiano di maneggiare con meno attenzione i cosiddetti “fitosanitari” credendo che si tratti di prodotti meno pericolosi dei vecchi pesticidi, e dall’altro accalappia i consumatori, convinti che l’agricoltura del ventunesimo secolo sia sempre più sicura e controllata. Una manipolazione che dal linguaggio si sposta alla storia, con lo scopo di celare quale sia la commistione che lega governi e industrie del settore, e con l’intento di nascondere l’origine di determinati prodotti, l’utilizzo detestabile che ne è stato fatto e i terribili effetti che hanno ancora oggi su tutte le forme di vita con cui vengono a contatto.
Per tutti questi motivi dobbiamo lanciare un’operazione di trasparenza e tornare a chiamare i prodotti “fitosanitari” con l’unico nome che gli calza veramente a pennello: veleni.
Gli altri articoli di questa rubrica: #AgriCulture1, #AgriCulture2, #AgriCulture3.
veleni.
Esattamente.