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di Antonio Cipriani

Non è che il giornalismo sia finito perché scrive sciocchezze, dico generalizzando. Diciamo che è malato grave perché ha tutti gli strumenti per raccontare la realtà, per confrontarsi con la verità e confutare il potere e invece guarda altrove. Un altrove talvolta fatto anche bene, c’è da dire. Alcune narrazioni, alcune letture o dibattiti, sono di alta professionalità, camminano sulla strada di un mestiere ben fatto davvero.
Il problema è la mancanza di democrazia che è diventata nella democrazia il fulcro intorno al quale tutto si muove. Tutta questa professionalità, la capacità dei giornalisti e la grandissima vocazione dei giovani cronisti va a frangersi sugli scogli del sistema di proprietà della libertà di stampa. Finisce incanalata in modalità che servono a far girare i giusti mulini, a far salire e scendere le maree come sotto la luna. Direte: è sempre stato così. Rispondo: c’erano editori e adesso no, c’erano dei contrappesi che ora non esistono più. Gli editori sono stati sostituiti dalla finanza che domina, da un ceto imprenditoriale che tra le altre cose fa anche informazione, a braccetto con la politica e con la finanza. Gente che conosce il mestiere di affarista, che sa come portare acqua al proprio mulino, tanto più in tempi di crisi. Ma la domanda è questa: i media come potranno mai esprimere quel minimo di antagonismo naturale dell’informazione, pane quotidiano della conoscenza sulla quale si formarsi opinioni?
Trattasi di domanda retorica, perché è impossibile da porre: è come chiedere allo sfruttatore di avere a cuore la libertà e la dignità dello sfruttato. Il sistema è cinico, non lo prevede. Prevede che il padrone faccia utili e che questo meccanismo rappresenti una “forma di vita” neanche più una religione. Quindi in questa forma di vita è naturale il licenziamento, il buttare per strada persone senza riguardi, il sistema di raccomandazioni e clientele, l’utilizzo del bene comune per affari privati, la gestione del mercato per costruire la ragnatela mafiosa-strutturale che sostiene la politica, declinazione utile di un coacervo di interessi che niente hanno a che fare con i nostri interessi reali.

In questa forma di vita, i media sono parte essenziale. Rappresentano la declinazione più efficiente delle efferatezze utili a una parte ricca e potente per educare e abbindolare il resto dei cittadini, quelli che dovrebbero dare l’assalto ai palazzi dell’ingiustizia sociale e che invece giocano col telefonino, si beano delle battutine ironiche dell’intellettualino inutile di riferimento mediatico. Vera alternativa intelligente al potere trucido. Ma è impossibile non vedere come sia supina la posizione degli intellettuali di sistema, dei prodigi da salottino che per anni sono stati osannati come interpreti brillanti di qualcosa che veniva percepita come opposizione morale, culturale ed è stata invece una resa. Pura e semplice resa scintillante, intellettualmente brillante e accettabile. Vi lamentate oggi che non dicono niente di culturalmente e socialmente rivoluzionario, che tacciono sui drammi veri del tempo? Che i media non si fanno interpreti credibili della realtà che viviamo? Dico: meglio se questi prodigi stanno zitti, piuttosto che vedere questa esposizione di minchiate eleganti, che assistere al coro conformista di una generazione di falliti che hanno fatto i soldi.
Mentre scrivo queste parole con una certa amarezza apparente, rifletto su chi ha ucciso i giornali e penso che il killer sia da trovare – come un giallo che si rispetti – in questo scenario. La realtà non ha più niente di sacro, le torri altissime e simboliche della finanza hanno sostituito i campanili delle chiese nella corsa verso il divino. E non si tratta della divinità denaro che ha scacciato ogni sacralità, è che il denaro (con le sue implicazioni di potere e successo) rappresenta la forma di vita di cui parlavo poche frasi più in su. Il cosiddetto mercato è un recinto culturale, prima che fisico e sociale. Opera come dogma, perché è un dogma. Se vuole esistere, parlare, essere riconosciuti, avere dominio, occorre percorrere agili la strada della resa incondizionata tramite dosi di conformismo intelligente, ironico. Di opposizione, con guizzi di ribellione, ma da copione. Creativi del niente, anticonformisti ma con l’occhio rivolto al marketing. Perché la chiamata è dietro l’angolo. Occorre essere pronti e disponibili.
Quindi, voi direte? Non ci resta che tacere nel frastuono preformattato del tempo? Oppure bisogna fare un’opposizione apparente nell’attesa che il successo o la luce dei riflettori del sistema si possa poggiare su una nostra intuizione? Uno su mille potrebbe farcela, questa è la filosofia. Scegliere il contesto giusto, cogliere la tendenza del mercato e prendersi una fettina di popolarità. Ma questo salva i giornali (la cultura, l’attivismo politico) oppure lo affossa definitivamente in un mare di tentativi mal riusciti di ottenere la luce?

Le edicole stesse, chiudono perché nessuno legge più, o nessuno legge più perché il sistema di condizionamento e di imbarbarimento sta creando un deserto culturale?

Queste domande sono quelle che lascio nel dibattito di queste ore su chi ha ucciso i giornali e sul ruolo dell’edicola. Ben sapendo che nel nostro piccolo, facciamo del pensiero un’azione. Faticosa perché non ammicca ad alcun progetto di marketing, non copia alcun format, ma circola libero e con cuore puro. Questa per me è la strada: fare del pensiero un’azione, non accettando niente di quello che ci viene proposta come sistema e antisistema. Tabula rasa. Azzerare tutto. Riprendere il filo e nella desertificazione far nascere un fiore nuovo.

L’immagine di copertina è di Giulia Cipriani (Collettivo Emergenze)

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