di Matteo Minelli
Nelle scorse settimane abbiamo prima avuto paura. Paura per quello che stava avvenendo, paura che altre scosse rendessero ancora più tragica una situazione già troppo drammatica. Paura di conoscere le storie di quegli uomini, di quelle donne, di quei bambini che non ce l’hanno fatta. Insieme alla paura c’è stata l’angoscia, per i dispersi, per chi poteva essere intrappolato sotto le macerie, per chi aveva perso tutto il lavoro di una vita, per chi soprattutto non aveva più un padre, una moglie, un figlio. A tratti la speranza ha fatto capolino, ogni volta che una voce si levava dalle rovine, flebile ma coraggiosissima. Era la voce di chi non si voleva arrendere. La vita risorge, abbiamo pensato. Ma poi per ogni sopravvissuto c’erano altri morti e allora la speranza tornava a nascondersi lasciando il posto alla disperazione.
È passato quasi un mese dal sisma e fino “all’altro ieri” si raccoglievano i morti. Purtroppo siamo arrivati a quota 296. Dinnanzi a questa carneficina il sentimento che oggi dovrebbe squassare le nostre anime è la rabbia. La rabbia di chi sa che quei 296 morti non li ha uccisi il terremoto, non li ha uccisi una natura ostile e beffarda, li ha uccisi lo Stato, li hanno uccisi le Istituzioni. Le stesse Istituzioni che ci chiedono unità, che ci chiedono silenzio, che ci chiedono rispetto, che ci invitano ad essere solidali, ma solidali come piace a loro. Devi inviare quello che dicono loro, a chi dicono loro.”I viveri non servono, le coperte neppure, men che meno i pannolini. Mandate i soldi.” Soldi, soldi, soldi.
Gli stessi che gli diamo ogni giorno con le tasse, con l’iva, con la benzina, con le trattenute, con le sigarette. Gli stessi soldi che finanziano la repressione, i baronaggi, gli intellettuali del sistema, gli artisti prigionieri del libretto degli assegni. Ma non vi preoccupate, ci dicono, quei soldi, quelli che raccolgono anche le multinazionali della disinformazione e le tentacolari propaggini del sistema socio economico, questa volta andranno a buon fine.
Preoccupati o no, presto di Amatrice, Accumuli, Arcuata, Pescara del Tronto e di tutti gli altri centri colpiti dal terremoto non ne sentiremo più parlare. Non è passato nemmeno un mese dal sisma e già i tg sbattono quelle notizie nei titoli di coda (quando va bene), mentre i giornali preferiscono aprire con i siparietti della politica di palazzo, e i talk show dibattono del Grande Fratello Vip. E questo è solo l’inizio: tra poco tempo solo un altro “disastro” ci farà ripensare ad Amatrice. Come nei bui giorni di fine agosto abbiamo ripensato all’Emilia, all’Aquila, all’Umbria, andando a ritroso fino all’Irpinia e al Friuli. E magari qualcuno tornerà nei luoghi delle scosse che sono state e troverà che “ancora si vive nelle baracche, mancano i servizi di base, la città è disabitata, l’economia non è mai ripartita, etc etc etc”. E così il tradimento dello Stato diventa doppio, triplo, quadruplo.
Dov’era lo Stato quando gli uomini morivano sotto le macerie? Dov’era lo Stato quando le abitazioni non venivano messe in sicurezza? Dov’era lo Stato quando la scuola di Amatrice veniva costruita per crollare alla prima scossa? Lo Stato era a farsi i cazzi suoi, come ha sempre fatto. Lo Stato beveva prosecchi al Campidoglio. Lo Stato salutava le delegazioni straniere. Lo Stato “visitava i cantieri, amministrava le città, progettava il futuro”. Oppure lo Stato era lì, tra quelle case pericolanti, all’inaugurazione di quella scuola elementare. Era lì a sorridere sornione, a prendersela comoda, a incassare baci e abbracci, a tagliare i nastrini e appuntare le coccarde.
E mentre lo Stato, e i suoi esimi rappresentanti, dopo il terremoto si affacciavano al cataclisma con l’atteggiamento di chi ti ha distrutto l’esistenza ma adesso è pronto a ricostruirtela per rubartela nuovamente tra qualche anno, le forze politiche si univano in un coro “quadripartisan” di invocazione dell’unità nazionale. Tutto senza che nessuna voce, se non le urla soffocate da basso, gli dicessero dove se la sarebbero dovuta infilare la loro unità nazionale.
In mezzo a questo schifo, in migliaia sono partiti per scavare, per portare conforto e sostengo materiale, per imparare ed insegnare la solidarietà, la reciprocità, il mutuo appoggio. E parlo di quelli non pagati da nessuno, senza spillette sul petto e coccarde luccicanti appuntate sul cappello. Parlo di quelli che hanno messo davanti a tutto la voglia di dimostrare che gli uomini sono fatti per questo. Per vivere insieme lo sconforto, per unirsi nelle tragedie, per riconoscersi negli altri. Negli altri diversi da noi ma così tremendamente uguali nelle difficoltà, nelle ingiustizie, nella marginalità sociale. Perché se abbiamo uno scopo, come umanità, è solo questo. Essere uniti in un progetto condiviso di solidarietà totale, che ci investa tutti, oltre ogni barriera, e ci riporti sulla strada che la vita ha tracciato per noi.
Un’unità ben diversa rispetto a quella dal sapore falso che ci propugnano le Istituzioni. Un unità trasversale di tutti coloro che si riconoscono nella suprema necessità di dare il via, anche in situazioni tragiche, a nuovi e diversi orizzonti di socialità, fratellanza e di lotta. Affinché non succeda ancora che lo Stato trasformi eventi naturali in immani cataclismi. Affinché non possa impunemente violare quel contratto sociale che ci continua ad imporre. Affinché venga un giorno in cui anche nei luoghi della devastazione rifiorisca la vita.