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di Matteo Minelli

 

Pare che il 30 gennaio, a nove anni dall’esordio, il Family Day tornerà a riempire piazza San Giovanni in Laterano. I suoi promotori rilanciano la battaglia a favore della famiglia tradizionale, quella che il catechismo cattolico identifica come la cellula originaria della vita sociale: un uomo e una donna che sono chiamati al dono di sé nell’amore e nel dare la vita. Il pretesto per salire sulle barricate questa volta è offerto dal ddl Cirinnà che, aprendo alle unioni civili e alle adozioni per i conviventi, contribuirebbe a distruggere i valori e le peculiarità di quelli che, per molti nostri connazionali, sono gli autentici nuclei familiari. Gli unici, sempre a dir loro, veramente naturali e soprattutto gli unici capaci di espletare funzioni fondamentali quali la procreazione, la trasmissione di valori, il sostegno reciproco e la protezione tra gli appartenenti. Ne deriverebbe che l’istituzione famiglia, nella declinazione sopra citata, non può che essere universalmente riconosciuta come la più adatta ad organizzare la vita “domestica” degli esseri umani.

Sfortunatamente per la Chiesa Cattolica, per i promotori del Family Day e per i numerosi concittadini che scenderanno in piazza, la famiglia tradizionale non è affatto universale. Anzi, almeno il 90% delle culture umane si è organizzato storicamente su modelli familiari molto diversi rispetto a quelli declamati dal catechismo vaticano.

Prima di tutto bisogna sfatare il mito secondo cui l’unica famiglia autentica sia quella basata sul matrimonio monogamico tra un uomo e una donna. Nella stragrande maggioranza delle società conosciute infatti, è stata praticata la poligamia. Sia nella forma detta poliginia, in cui diverse mogli condividono un marito, sia in quella definita poliandria, in cui diversi mariti condividono la stessa moglie; accadimento tutt’altro che insolito, ad esempio, tra le popolazioni tibetane. È ovvio che in tali contesti la sfera sessuale, economica, organizzativa nonché l’allevamento dei figli hanno dei paradigmi di riferimento totalmente diversi dai nostri: la famiglia nucleare di fatto cessa di esistere poiché la condizione di mogli e mariti plurimi influenza in maniera determinante processi come la riproduzione, lo svezzamento dei neonati e la cura dei figli. Nelle famiglie poligamiche, infatti, donne e uomini non condividono il talamo dei propri coniugi in determinati periodi della vita, quali gravidanze, parti, e allattamenti. Le mansioni domestiche sono suddivise equamente tra i vari consorti e l’educazione dei bambini è affidata all’intero contesto familiare e non ai genitori biologici.

È necessario poi distruggere il pregiudizio secondo cui soltanto la famiglia tradizionale sarebbe capace di sovrintendere a determinate funzioni. Al contrario sembra che molte società siano organizzate su strutture familiari più complesse proprio perché le famiglie nucleari mancherebbero del capitale umano capace di svolgere le mansioni casalinghe, le incombenze economiche e i doveri educativi in modo pienamente efficiente. Nasce per questo motivo la famiglia estesa, in cui il gruppo domestico è formato da fratelli e sorelle con rispettivi congiunti e figli. I Batonga del Mozambico, i Rapjputs dell’India settentrionale  e i Barotse dello Zambia sono popolazioni in cui la famiglia estesa è totalmente dominante rispetto a quella nucleare. Mogli e mariti sono inglobati nelle dinamiche del gruppo familiare, non possiedono autonomia decisionale come coniugi e talvolta a mala pena si rivolgono la parola nel corso della giornata.

In questi modelli anche la cura degli infanti è assolta in modalità differenti rispetto alla famiglia nucleare ma risponde perfettamente ai bisogni del gruppo. A questo proposito vanno ricordate tutte quelle società in cui fanciulli e adolescenti vivono separati dai genitori per ricevere da altri affini gli insegnamenti relativi alle tradizioni, alla sfera sessuale e ai rituali della comunità. Tra i Nyakyusa della Tanzania, i bambini iniziano dall’età di sei anni a costruire le proprie future abitazioni, in un luogo distante dal loro villaggio di origine. Giunti all’adolescenza abbandonano il padre e la madre per trasferirsi definitivamente nelle nuove case, tornando solo per i pasti fino al giorno del loro matrimonio.

Anche il rapporto tra coniugi varia notevolmente da cultura a cultura. Presso i Fur del Sudan i mariti non dormono con le mogli e pranzano con altri maschi in mense separate. Tra gli Ashanti gli uomini mangiano con i parenti di discendenza matrilineare e non con i propri figli e mogli, sebbene siano loro a preparare i pasti. Ma forse il caso che noi considereremmo più agghiacciante è quello dei Nayar del Kerala. In questa popolazione non esisteva alcun rapporto tra moglie e marito al di fuori dell’ambito sessuale. I figli nati dal matrimonio non conoscevano i propri genitori ed erano cresciuti dallo zio materno che si occupava del loro mantenimento e della loro educazione.

Occorre infine smentire l’idea che il matrimonio sia per natura contraibile soltanto tra uomo e donna. Vi sono molti casi tra i popoli africani in cui le donne si sposano con altre donne. Il matrimonio omosessuale segue le stesse modalità di quelli eterosessuali. Una donna paga ai genitori di un’altra il prezzo della sposa e diventando un “marito femmina” ha diritto a formare una sua propria famiglia. Il “marito femmina” lascia poi che uomini prescelti entrino nel letto di sua moglie e la fecondino. I figli concepiti saranno posti sotto la sua autorità e non sotto quella del padre biologico. In altrettante culture sono gli uomini a contrarre matrimonio con altri uomini. I giovani Kwakiutl sposano frequentemente gli eredi maschi di membri importanti della tribù per acquisire un rapporto privilegiato con loro.

Antropologicamente parlando non sembra proprio che la famiglia tradizionale e il matrimonio tra un uomo e una donna, su cui essa si fonda, siano poi così naturali e universali. Se è vero che per concepire un bambino servono un maschio e una femmina (o almeno ovaie e spermatozoi), è altrettanto vero che non è l’atto procreativo a condizionare il contesto sociale in cui viene realizzato ma esattamente il contrario.

Giunti a questo punto potrei dire che ho scritto questo articolo per dimostrare che il concetto di famiglia è legato alla sfera culturale e non biologica, per sostenere conseguentemente la necessità di estendere diritti a tutti e non certo per incentivare l’introduzione in Italia di modelli familiari tribali. Invece no, proprio perché credo nel rispetto degli altri, ritengo che ogni individuo, in autonomia e in accordo con i suoi simili, dovrebbe costruire e vivere la famiglia che desidera in qualunque parte del mondo. Siano famiglie omosessuali o eterosessuali, monogamiche o poligamiche, siano estese o nucleari, siano con compagni stabili o temporanei, siano composte da fratelli e sorelle, zii e nipoti, cugini e nonni. L’importante è che siano libere, che consentano a chi ne fa parte di crescere senza maltrattamenti e imposizioni, di invecchiare serenamente, di vivere in armonia con se stessi, i propri affini, la società e l’ambiente che li circonda.

L’alternativa è imporre un unico modello familiare, o al massimo una ristretta cerchia di archetipi da imitare. Archetipi che finiscono per non tener conto dei bisogni del singolo, dei mutamenti a cui le società vanno incontro, delle sfide economiche, culturali e sociali che ci impone il nostro tempo. Archetipi destinati a produrre malcontento, miseria, frustrazione e purtroppo sempre più spesso violenza.

Insomma che siano basate su nuove e vecchie forme di convivenza, interazione, rapporto: l’importante è che le famiglie offrano a ciascuno tutto ciò di cui ha bisogno materialmente e idealmente. Perché l’unica famiglia naturale è quella che realizza la felicità di chi ne fa parte.

 

Leggi anche: L’educazione tribale: come crescere liberi e felici i propri figli.

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