Torpignattara, terzo appuntamento.
di Francesco Thérèse
C’è un punto di rosso nel quadro che non esiste in natura, né in pittura: esiste solo in questo preciso quadro.
Più ci si avvicina alla tela e più ci si accorge che non si sta guardando un colore solo, ma la somma di decine di pennellate disperate di colori trasparenti.
Di colori diversi, uno sopra l’altro e sotto l’altro.
A guardare con la giusta attenzione si riesce a sentire il colore che bolle sul fornelletto da campeggio. Lo si può vedere dilatarsi tendendo all’infinito, per poi amalgamarsi sulla tela come una preghiera di pace.
Pace interrotta, spazio vuoto ed un tappeto liso in camera: quando Alessandro si è alzato ed ha gridato quella sera violenta. Quando ha smesso di guardare la riproduzione del suo quadro preferito.
Quel rumore è rimbombato nella risacca di Torpignattara per poi perdersi nel ventre del tram della Casilina, fermo al semaforo.
Fermo a due passi dall’irreparabile. Dall’assoluto. Dall’addio irripetibile: Alessandro che abbiamo visto lanciarsi nel vuoto come la Nike di Samotracia poco più che maggiorenne che cerca di raggiungere Saturno passando per la crosta della terra, sbalzato sul marciapiede.
Rifiutato una volta ancora.
Ha lasciato l’eco di una battuta, i suoi pochi amici, il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante. Tutti a tavola a mangiare un ultimo boccone carbonizzato.
Ha lasciato tutto sotto un pino, dove era pronta la sua tomba, in questa notte di cui abbiamo già traccia nella storia del genere umano, nei segni preistorici sulla roccia delle grotte di Lascaux, sulle pareti delle carceri e nelle cappelle delle basiliche.
Nelle catacombe romane, dove la pace è interrotta, lo spazio vuoto ed un tappeto è liso.
Un tappeto è liso.
è liso.
liso.
lì so.
Lì sono ancora i resti della curcuma sparsa come tifone per coprire la vergogna del sangue di Amal, dove è stato ucciso. Dove sono stati innalzati i cieli: di fronte al mazzo di fiori legato ad un palo, dove Alessandro si è suicidato. Dove le urla si sono perse nella confusione.
È stata distesa la terra, prima che il cranio di Amal venisse frantumato con colpi sordi al genere umano da un diciassettenne armato dal padre. Armato delle parole che gli uscivano arrotondate dalla gola quando lo incitava a finirlo.
Piange, pensa, piange.
Vigneti, campi di grano, palmeti a ciuffo.
Piange, pensa, piange.
Piange, pensa, piange.
Sanguina rosso, muore, sanguina rosso.
Un punto di rosso nel quadro che non esiste in natura, né in pittura: esiste solo in questo preciso quadro.
Più ci si avvicina alla tela e più ci si accorge che non si sta guardando un colore solo, ma la somma di decine di pennellate disperate di colori trasparenti.
Di colori diversi, uno sopra l’altro e sotto l’altro.
A guardare con la giusta attenzione si riesce a sentire il colore che bolle sul fornelletto da campeggio. Lo si può vedere dilatarsi tendendo all’infinito, per poi amalgamarsi sulla tela come una preghiera di pace.
Pace interrotta.