di Francesco Merlino
Non è importante la meta, ma il cammino.
Questo è il segreto della libertà, questo è l’unico modo per farsi prendere dalla novità.
È noto che Colombo scoprì l’America puntando alle Indie, perdendosi nel mare sconfinato. E così noi abbiamo scoperto Perugia e continueremo a scoprirla perdendoci per le sue strade, senza andare da nessuna parte, con lo sguardo fisso al circostante.
Questo novembre così caldo che trasforma un ossimoro in realtà mi porta con sé, senza troppo aiuto del vento. Le strade sono deserte. Per le cioccolate variegate è troppo tardi, ne sono rimaste solo le cartacce, come vestiti di corpi decomposti; le luminarie, precoci preavvisi di festa, pendono come foglie morte, ancora spente, è troppo caldo anche solo per pensare alla suggestione del Natale. Camminare così diventa un incomparabile piacere, una ricerca di te stesso più che di un luogo, e ti immagini nella scena finale di un film, con la musica che parte in sottofondo e la sensazione di aver capito tutto, che simuli nell’espressione migliore del tuo viso, mentre, in realtà, non hai capito niente.
In momenti come questi ci si discosta senza paura dalle vie più spesso solcate, come attirati da un bisogno di solitudine, che ha una voce che ti chiama. Piazza Italia, Corso Vannucci, Piazza Morlacchi. È una catabasi profana, un climax morfologicamente discendente, ma ascendente per lo spirito. Si continua a scendere, verso il Liceo Classico, luogo di ricordi agrodolci, poi giù a sinistra, verso la Torre degli Sciri, che sembra essere stata punita dagli dei per aver peccato di hybris, scaraventata lì sotto, dove alla sua elegante altezza non è concesso svettare.
Si chiama via Francolina la strada dove mi trovo. L’ho percorsa più di mille volte senza averla vista mai, sempre concentrato sulle orecchiette al pomodoro che mi attendevano fumanti sul tavolo della cucina o sugli occhi verdi di una ragazza che mi passava vicina.
Ma oggi sono solo e sono le cinque di pomeriggio e posso finalmente rendermi conto di essere in via Francolina. Scendendo, sulla sinistra, c’è una porta insolitamente aperta; un gruppo di quattordicenni che mi compaiono davanti sbirciano all’interno e poi scappano ridendo con i volti deformati ed io quasi piango al pensiero di aver avuto anch’io la loro stessa faccia da cazzo. Entro anch’io, come volessi chiedere scusa a quel luogo per conto di chi mi ha preceduto e mi imbatto in un nuovo tesoro sepolto.
Lo scrigno che mi si apre allo sguardo è una piccola chiesa medievale, che qualcuno avrebbe potuto riconoscere, anche senza entrare, dal muro di pietra e dal piccolo rosone originale che si affaccia sulla via. Più precisamente un oratorio, originariamente della famiglia Francolini (che dà il nome alla via), divenuta proprietà della parrocchia nel 1285, della vicina chiesa di San Luca nel 1482 e della Compagnia dei Servitori di Sant’Anna nel 1779 (da quel momento verrà conosciuta come Chiesa o Oratorio di Sant’Anna dei Servitori).
Ciò che attira e colpisce maggiormente l’occhio di chi guarda, non lasciandolo sfuggire altrove e convincendolo ad indugiare, è il centinaio di drappi e stendardi che cadono dalle pareti dell’abside, piccolo e pieno, colmando ogni singolo spazio bianco. L’oratorio di Sant’anna infatti è oggi la sede della Confraternita di San Jacopo di Compostella.
Ed il brulicare di quei drappi suggerisce l’immagine dei viandanti, dei pellegrini che decidono di partire, per il viaggio non per la meta.
La confraternita perugina di San Jacopo esiste sin dal 1300 e promuove il pellegrinaggio oltre che offrire accoglienza a chi è già in viaggio. Accoglie anche me, sebbene il mio viaggio sia circoscritto a pochi chilometri quadrati di viette e negozi. Le pareti osservano chi entra con gli occhi di chi è già passato, diretto a Santiago, Gerusalemme, Roma. Ti guardano i volti dei dipinti del settecento, della Sant’Anna di Antonio Maria Garbi che svetta sull’altare con il marito, San Gioacchino, e la Madonna, loro figlia.
Varco una porta, alla sinistra dell’altare, e mi trovo in una piccola sacrestia.
Anche qui, crocifissi alle pareti, centinaia di fogli: sono le compostela, gli attestati rilasciati dall’autorità ecclesiastica di Santiago de Compostela a chi arriva a destinazione; nel medioevo una poteva valere la salvezza e la redenzione, oggi è solo simbolo di una effimera conquista di libertà.
Perchè è forse quella la ricompensa per chi si incammina. Faccio un anacronistico segno della croce ed esco.
Non c’è poi molto da capire, o cose apparentemente banali o cose incomprensibili ho trovato nell’Oratorio di Sant’Anna, casa di pellegrini che hanno fatto dei loro passi la loro invisibilità, ma che lasciano testimonianze di loro attaccate alle pareti.
Sarebbe bello sapere perché camminano.
Paulo Coelho scrive ne Il cammino di Santiago che “Il sogno è il nutrimento dell’anima, come il cibo è quello del corpo”. Se dovessi cominciare a camminare non credo lo farei per San Giacomo Matamoros, né per Dio o per dei confratelli, forse lo farei per me. Proprio come in questo novembre che mi fa sudare. Iniziare a camminare vuol dire smettere di lasciarsi trasportare dal moto rotatorio del mondo, perché se stai fermo ti porta dove vuole lui, ma se cammini, nel piccolo balzo che c’è tra un passo e l’altro, non sei vincolato al suolo e sei libero.
Non c’è libertà se non c’è scelta e non c’è scelta se non c’è conoscenza. Perciò vale la pena alzarsi ed andare e magari lasciare il segno del nostro cammino, con uno stendardo, un pezzo di carta o la condivisione delle emozioni.
“C’è sempre qualcosa di più, un po’ più in là… non finisce mai” Jack Kerouac