di Matteo Minelli
#MorireDiCiviltà/3
“Il virus ora può essere sconfitto”. “Non si muore più di AIDS”. “Vaccino efficace contro l’HIV”.
Questi i titoli che ultimamente, nella maggior parete dei casi, quotidiani, giornali online, riviste scientifiche e trasmissioni televisive, più o meno ferrate sull’argomento, hanno dedicato al tema della lotta alla sindrome da immunodeficienza acquisita. In effetti, un’euforia generale si è diffusa intorno alla possibilità che l’AIDS entri presto nel gruppo di quelle malattie infettive che la nostra sempre amata medicina ha spedito nel dimenticatoio. Addirittura le Nazioni Unite hanno individuato nel 2030, l’anno in cui il contagio sarà definitivamente bloccato. Controllo sistematico della diffusione, prevenzione, terapie farmacologiche sperimentate e trattamenti innovativi dovrebbero dare il colpo di grazia ad un virus che fa sempre meno paura. Un virus che spaventa così poco i civilizzati che pratiche come il bugchasing (slang con cui si indica un’attività sessuale non protetta mediante la quale individui non infetti cercherebbero di effettuare la cosiddetta sieroconversione) si diffondono a macchia d’olio.
Ecco, mentre una parte della nostra specie volontariamente desidera prendere e trasmettere l’AIDS, poiché è assolutamente certa, erroneamente lasciatemelo dire, che alla fine con il virus si possa convivere pacificamente, un’altra, quella costituita dai popoli tribali, vive nella paura del contagio e di tutte le terribili sofferenze che ne conseguono. Si perché l’AIDS è uno dei tanti mali usciti dal vaso di Pandora che la Civiltà ha donato alle tribù. Tribù che, prive delle conoscenze indispensabili a difendersi dal contagio, impossibilitate all’accesso ai preservativi, private dai governi delle cure mediche basilari, isolate e rinchiuse in ambienti che facilitano lo sviluppo di vere e proprie epidemie, sono letteralmente falcidiate da una malattia che i civilizzati danno già per sconfitta. Oggi il 40% dei boscimani muore a causa dell’AIDS, una sindrome che, fino al 2002, anno in cui le autorità li sradicarono dalle loro terre e li costrinsero a vivere nella riserva di New Xade, era per loro totalmente sconosciuta. Parakanà e Yanomani, un tempo popoli incontattati del Brasile, dopo la gonorrea e la sifilide, introdotte dai soldati governativi, ora si trovano a dover combattere i primi casi di AIDS. Ma sicuramente il caso più emblematico di contagio cronico in un contesto tribale è quello dei papuasi, tra cui si sta sviluppando una vera e propria pandemia.
I papuasi (o papua), abitanti originari della Nuova Guinea, arrivarono su quest’isola, la seconda più grande al mondo, almeno 50.000 anni fa. Popoli geneticamente simili ai melanesiani e agli australidi, vissero a lungo di caccia e raccolta, per convertirsi, probabilmente intorno al 10.000 a.c., all’agricoltura, prevalentemente di taro e patate. I primi contatti con la Civiltà sono datati intorno al 1530, quando l’esploratore portoghese George de Meneses battezzò questa terra Ilhas dos Papuas (isola dei capelli crespi). Per lungo tempo i colonizzatori non si interessarono della Nuova Guinea, che rimase agli occhi degli europei una terra misteriosa e pericolosa, vista anche la nota bellicosità dei suoi indigeni. Solo nell’XIX secolo, quando l’espansione coloniale raggiunse una dimensione totalizzante su scala globale, olandesi, tedeschi e inglesi si spartirono l’intera isola.
Dopo le traversie delle guerre mondiali la Nuova Guinea, divisa in due parti da uno di quei confini tirati con il righello tanto cari agli imperialisti europei, vedeva sul proprio territorio un’amministrazione olandese nell’area occidentale e una australiana in quella orientale.
Presto quest’ultima parte divenne autonoma e prese il nome di Papua Nuova Guinea. La stessa sorte avrebbe dovuto subire la zona controllata dal governo di Amsterdam, che prolungò fino al 1961 la sua presenza sull’isola. Quando finalmente l’indipendenza sembrava essere a portata di mano, l’Indonesia, anch’essa già colonia olandese, minacciò l’invasione della parte ovest dell’isola. Spaventate dall’imminente conflitto le Nazioni Unite indissero un referendum affinché fossero i papuasi a scegliere il loro destino. La consultazione agli occhi di numerosi osservatori internazionali fu un’autentica farsa e decretò l’annessione del territorio un tempo controllato dagli olandesi all’Indonesia, che lo ribattezzò Irian Jaya.
Da allora Giacarta controlla con il pungo di ferro un territorio straordinariamente ricco dal punto di vista delle riserve naturali, usurpando quotidianamente i diritti dei popoli indigeni. Si stima che a Papua Occidentale vivano più di 300 gruppi tribali, ognuno con usi, costumi e lingue proprie, tutti a rischio sopravvivenza a causa delle politiche governative. Repressione militare, uso gratuito e spropositato della forza, stupri di massa, incarcerazioni illegali, deportazioni: tutto questo devono subire gli indigeni papuasi mentre le autorità indonesiane devastano la loro terra attraverso la deforestazione totale e lo sfruttamento massiccio delle miniere. Nel corso del tempo, alla pervicace opera di distruzione ambientale e alla violenza generalizzata dell’esercito (che sembra abbia causato decine di migliaia morti tra gli autoctoni) si sono aggiunti un programma di migrazione dalle altre regioni indonesiane, il cui scopo, nemmeno tanto velato, è la cancellazione totale delle culture indigene, e – infine – l’AIDS.
Diversi leader delle comunità locali sostengono che il governo abbia deliberatamente diffuso il virus, attraverso gli stupri di massa perpetrati dai militari e l’incoraggiamento alla prostituzione nei luoghi di lavoro in cui i papausi, impossibilitati a vivere secondo le proprie tradizioni, sono costretti a recarsi. Intorno al 2010 la diffusione dell’HIV ha raggiunto nella Papua Occidentale dimensioni impressionanti. E anche se ultimamente l’Organizzazione mondiale della Sanità ha dichiarato che la pandemia è stabilizzata e si avvia al declino, sembra che ancora una percentuale ragguardevole della popolazione sia infetta e che, soprattutto, il 75% dei sieropositivi sia un indigeno. Molte associazioni umanitarie sostengono addirittura che tra gli autoctoni l’incidenza dell’AIDS sia da quindici a cinquanta volte superiore rispetto alla media nazionale. In questi anni le autorità di Giacarta hanno intensificato controlli, prevenzione e cure soltanto nei contesti urbani, abitati in larghissima maggioranza da immigrati indonesiani, abbandonando totalmente le zone isolate, montane e rurali. Appare così suffragata la tesi secondo cui l’AIDS rappresenti l’ennesimo mezzo per realizzare un’operazione di pulizia etnica dei papuasi.
Insomma, mentre la medicina bolla l’AIDS come una malattia che sarà presto sconfitta e qualche sciagurato figlio della Civiltà gioca alla sieroconversione, i papuasi e molti altri popoli tribali muoiono, assai poco casualmente, per mano di un virus che non avrebbero mai incontrato senza il contributo del nostro progresso e della nostra modernità. Eppure aspettiamo ancora un Philadelphia o un Dallas buyers club ambientato in Nuova Guinea. Ma se un avvocato e un cowboy malati e discriminati valgono qualche Oscar, interi popoli annientatati a colpi di HIV non meritano nemmeno un titolo di giornale.
Sarà che non si gode di alcuna notorietà, e nemmeno di un po’ di pietà, se il mandante dell’assassinio è la Civiltà.
Leggi anche gli altri articoli delle rubriche #OltreLaCiviltà e #MorireDiCiviltà.
Grazie per l’articolo.
I popoli tribali potrebbero insegnarci tanto, e noi li distruggiamo deliberatamente.
Più esattamente, non noi, bensì “la civiltà”.
Che pena sento nel cuore, e le lacrime mi salgono agli occhi.
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Ho letto i due bellissimi libri di Sabine Kuegler,
“Figlia della giungla” e “Richiamo della giungla”,
che ha trascorso la sua infanzia ed adolescenza dentro la giungla, a contatto con i popoli papuasi.