Quella che segue è la terza parte del diario, scritto da Soledad Nicolazzi, sul viaggio in Etiopia, attraverso laboratori e messe in scena, di “Miraggi Migranti”, spettacolo teatrale che nasce dal sogno artistico e umano di Alem Teklu, scultrice etiope. Questi i link della prima e della seconda parte:
Miraggi migranti in Etiopia/1
e Miraggi migranti in Etiopia /2 Grotowski–Maometto 1 a 0
di Soledad Nicolazzi
20 giugno – fine prima tappa: Kafka forse era etiope
Oggi parto. La presentazione del lavoro è stata bella ed emozionante, tra il pubblico c’è chi ha pianto e chi ha riso… i ragazzi dopo averci offerto il caffè hanno voluto rivedersi immediatamente e hanno commentato tutto. Abbiamo invitato anche i loro fratelli e cugini più piccoli e Sancho e Fzum hanno gestito con grande cura e divertimento un’ora di laboratorio, riproponendo gli esercizi che abbiamo fatto insieme i primi giorni… insomma, sono molto contenta e soddisfatta.
Mi aspettano le sei ore di macchina e il ritiro della scenografia di “Miraggi Migranti”, lo spettacolo che io e Alem abbiamo preparato in Italia nello scorso anno e che presenteremo dopo quello dei ragazzi nei villaggi ad agosto. Era troppo pesante e voluminosa per viaggiare con noi. Abbiamo dovuto spedirla via Cargo.
Siccome l’ho spedita a mio nome devo ritirarla io stessa. Ho l’aereo per tornare in Italia stasera alle 10 e arrivo ad Addis alle 15 con Baraket, il tuttofare dagli occhi svegli e dai modi gentili che è stato appena assunto dal Ccm, il comitato di collaborazione medica, per cui lavoro.
Appena capisce che saremo noi a ritirare il pacco mi guarda sorpreso: nessuno è andato prima a fare i passaggi necessari? Mi chiedo quali passaggi. In fondo devo fare solo una firma.
Entriamo nell’aereoporto, zona merci. Ci sediamo in una sala che potrebbe essere quella di una qualunque città italiana, prendiamo il numerino, aspettiamo il nostro turno. Tutto molto civile. Guardo Baraket, pensando che forse ha esagerato quando ha detto che forse non ce la faremo a ritirare i pacchi oggi.
Con i documenti usciamo dalla sala e andiamo nel retro. Il panorama cambia improvvisamente: in un grosso portico, al fianco di una larga saracinesca aperta stazionano circa trecento persone, per la maggior parte in piedi. Baraket mi fa capire che sono tutte prima di noi. Ogni dieci minuti circa un autoparlante dice dei nomi: sono quelli che possono entrare nell’hangar dal quale escono pacchi enormi, scatoloni tenuti insieme con lo scotch mezzi sfasciati, alcun aperti, tappeti, pezzi di mobilio…
Alcuni ragazzi muovono tutto con dei muletti. La gente aspetta. Con una pazienza e una rassegnazione unica. Mi siedo su un pancale, e aspetto anche io. Ci sono donne con il velo, un paio anche integrale, uomini di tutte le età, vestiti in modo tradizionale oppure all’occidentale, qualche ragazzino… aspettiamo. La prima ora passa veloce, dopo un po’ non mi guardano più tanto, non sono una turista bianca ma sono anche io una di loro, una che aspetta un nome che forse per oggi, domani o dopodomani non verrà pronunciato. Sempre che i pacchi ci siano ancora e non si siano invece persi nel lungo viaggio.
Ad un certo punto comincia a piovere: ovvio siamo nella stagione delle piogge. Ma piove davvero forte… è come se un gigante rovesciasse grandi catinelle di acqua da sopra il tetto… l’acqua diventa grandine e il vento la spinge dalla nostra parte. Ci spostiamo tutti verso il muro, qualcuno tenta di entrare e così viene chiusa la serranda. La gigantesca macchina della merce da ritirare si ferma per almeno venti minuti. Aspettiamo che passi.
Quando riaprono mi rendo conto che se non mi faccio avanti non riuscirò mai a ritirare il pacco per oggi e che se lo lascio in deposito per un mese potrebbe costare davvero parecchio.
Così provo a parlare con una delle guardie, e gli spiego che tra qualche ora devo prendere l’aereo. Dopo qualche resistenza mi fa entrare dal retro. Da quella porta escono solo persone e pacchi, se vuoi entrare devi passare dal controllo.
Baraket non può entrare, vado sola. Dentro è immenso, ci sono almeno cinque o sei file e sportelli, e pacchi, pacchi in giro, doganieri che aprono, un brulichio di macchine e facchini che spostano, e dietro una grande grata il mondo dei pacchi, migliaia di pacchi su scaffalature alte venti metri. Se prima, fuori, ho pensato di essere in purgatorio, adesso so dove prendere materiale per i miei sogni ambientati all’inferno.
Intuisco non so come quale fila devo fare e quando riesco a farmi capire dall’impiegato e mi dice che il mio nome non è stato chiamato e che quindi devo nuovamente uscire, quasi svengo. Poi mi riprendo. Sono un’attrice no? Insceno dunque un melodramma in parte mimato anche perché lui non sembra parlare molto l’inglese, in cui spiego che ho l’aereo che devo ancora passar da casa a prendere le mie valige, che a casa i miei bambini mi aspettano…
Mi fa cenno di aspettare. Cenno proprio per modo di dire perché qui il massimo dell’espressività facciale è alzare un sopracciglio. Dopo un po’ capisco che ha avvertito il suo capo per vedere cosa può fare. Mi sento sollevata: forse, penso ce l’ho fatta.
Invece ci vorranno altre 9 file, 12 timbri, 8 fotocopie dei documenti, due pagamenti, uno legale e uno no, per un totale di altre 4 ore d’attesa. Mi sento come il protagonista del castello di Kafka, che alla fine non ricorda neppure più per cosa sta chiedendo il permesso. Ormai oscillo tra il pianto e il riso e quando tre facchini mi convincono che l’unico modo per avere i pacchi ora è dargli 100 bir a mano mi viene una grande rabbia. Guardo la faccia del capo e mi viene in mente la faccia di Abdi che fa il trafficante o quella di Seifu, il ladro, nella scena dei topi. Sono solo 25 euro, ma sono una fortuna per lui. Solo la presenza di Baraket improvvisamente materializzatosi al mio fianco evita che esploda e che trafughi i mie pesantissimi pacchi senza l’ennesimo timbro e che finisca in qualche remota gattabuia dell’aeroporto della metropoli.