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di Pancrazio Anfuso

Il sottosuolo, si sa, evoca pensieri angosciosi. Tutti, da piccoli, abbiamo fatto i conti con la fifa, e qualcuno non se n’è mai liberato. Il buio, il silenzio, l’ignoto sono spauracchi che si possono trovare nei sotterranei, nelle cantine, nelle grotte. O anche nei sogni, che spesso rivelano i pensieri oscuri che si rincorrono nel sommesso dialogo interiore che mormora incessante quando dormiamo, libero dalle pastoie del nostro controllo.

A Centocelle era facile, una volta, trovare un accesso alla fitta rete di cunicoli sotterranei, vecchi di secoli e secoli, di cui si sentiva quotidianamente parlare.
“A Roma nun ce fa er teremoto, sfoga tutto sottotera, è tutto vòto”, diceva Alvaro a Memmo. I due, bene informati, alzavano il bicchiere d’olevano e brindavano, non si sa se alla maggica o alla faccia sua, o a quella de chi ce vò male. Quando stavano ingranati je daveno de cògnacche Tre stelle, e allora te poteveno ariccontà de quanno ce stava er Gobbo der Quarticciolo che girava a castigà quei brutti infamoni de li borsari neri, li mortacci loro.

Il Gobbo, al secolo Giuseppe Albano, era un giovane immigrato calabrese che viveva nelle case popolari costruite dal Fascio al Quarticciolo, dove alloggiava una parte degli sfrattati di via dell’Impero, bonificata per costruire la via dei Fori Imperiali, inno alla vanagloria del dittatore.

Albano, ribelle irriducibile, mise insieme una banda che divenne, con la guerra, un gruppo tra i più attivi della Resistenza romana. Espropri proletari, spedizioni punitive contro collaborazionisti e borsari neri, redistribuzione delle ricchezze recuperate, azioni contro i fascisti e i tedeschi, come quella in cui fu ucciso un ufficiale nazista a piazza dei Mirti, dove c’era la vecchia trattoria in cui si riunivano e facevano comizi i partigiani, tavoli e panche di legno e una rota der carretto appesa fuori.

Si usava, nelle trattorie, attaccare al muro o all’esterno una ruota da barroccio, di legno, in genere colorata di rosso e verde. L’insegna della Peroni e quella del Chinotto Neri completavano l’opera. In piazza dei Mirti c’era anche una specie di pergola che proteggeva dal caldo (ma nun è er callo, è l’ummido che te frega) e la gente si fermava per una chiacchiera e un quartino, o un mezzo litro (fojetta).

Il Gobbo e la Resistenza romana usavano la rete fitta di cunicoli per nascondersi, sfuggire ai tedeschi o tendere loro micidiali imboscate. Si trattava di cave di pozzolana scavate dai romani, attive da secoli, in piccola parte usate anticamente come catacombe. Autentiche strade larghe metri e metri che s’intrecciavano in incroci ortogonali, diramazioni, svolte, affioramenti e frane, grotte più ampie e rivoli che si perdevano nell’oscurità e nel silenzio rotto dallo sgocciolio perenne dell’acqua piovana o di quella, sempre più copiosa, che lasciava filtrare la rete idrica. Roma, si sa, d’acqua ne spreca tanta.

A Centocelle c’è, intatto, un pezzo dell’Acquedotto alessandrino. Scende giù per via dei Pioppi, attraversa la Togliatti, che una volta era la Subaugusta, oppure la Botanica, e risale verso il quartiere Alessandrino che chiamavamo la Borgata.

C’era un fosso, nel punto più basso, che ogni tanto straripava e allagava tutto. Ora c’è rimasto il toponimo (via del Fosso di Centocelle), che si perde tra fiori e piante che caratterizzano lo stradario dei due quartieri.

All’incrocio tra lo Stradone attraversato dagli archi e la Casilina s’apriva un cunicolo scavato dal Fascio che passava sotto l’aeroporto. Non un posto qualunque, sopra a quel pratone aveva volato Wilbur Wright in persona.
Mussolini voleva farci qualcosa che somigliasse a una metropolitana.

Il tunnel doveva correre interrato parallelo alla Casilina e sbucare dalle parti del Mandrione, dove hanno rinvenuto, qualche tempo fa, una piantagione di marijuana che sfruttava come serra un pezzo di galleria, attrezzata a dovere di lampade alogene per una climatizzazione favorevole.
Mussolini avrebbe deplorato, o forse avrebbe lodato lo spirito autarchico dei coltivatori, imponendo loro di chiamare le piante con un più appropriato e italico, ancorché effeminato, Maria Giovanna.

Riscendendo dal Mandrione verso Torpignattara e costeggiando gli archi dell’acquedotto di cui sopra, giunto ormai alle porte della città, si arrivava alla zona degli sfasciacarrozze di via di Centocelle, dove c’era un accesso alle grotte che nel frattempo erano state trasformate in fungaie, illuminate e attrezzate, ma solo per una parte minima delle gallerie antiche.

Chiuse le fungaie (fine anni ’70) il luogo era diventato uno snodo di piccoli traffici ed era presidiato dalla figura grottesca di una prostituta anziana che stazionava sul posto, spesso inveendo contro gli automobilisti che le passavano davanti apostrofandola nei modi più turpi. Goliardia. Quella donna era una caricatura, come altre figure del quartiere, dove convivevano lavoratori, gente che viveva di espedienti e un fitto universo di creature in difficoltà.

Noi, piccoli, giravamo, con le mamme o con i compagni di scuola, tra campi di tabacco e prati dove razzolavano le matrone decadute, insieme alle massaie immigrate dal Molise o dalla Calabria, in cerca di cicoria.

Facevamo le porte con le giacche e giocavamo a pallone, oppure esploravamo la zona in cerca d’avventura. Qualcuno con un po’ meno fifa non si fermava all’entrata di quelle grotte, ma provava ad avanzare fino a che il buio non gli impediva di andare oltre. C’era una volta a cupola, c’era una discesa di terra smossa percorribile ma ripida, e in fondo quello che sembrava un budello oscuro, scavato, di cui non si vedeva il fondo. Alcuni miei compagni delle medie si erano organizzati per un’esplorazione, con le torce, da fare in più d’uno che se succede qualcosa non sia mai uno torna fuori e chiede i soccorsi.

Io non ci sono andato.

Giravano troppe storie terrificanti, c’era quel bambino, Marco Dominici, che era sparito giù in fondo, dalla parte di Forte Prenestino, e non si sapeva chi l’avesse preso e dove lo tenessero nascosto. E capirai, a Centocelle er sottosuolo è pieno de grotte, è tutto scavato, magari te voi annisconne. E chi te trova?
Leggende dicevano di gente scomparsa e mai più ritrovata. Marco fu trovato morto, qualche anno dopo, in un cunicolo nella zona di Forte Prenestino/Borgo Don Bosco. Della sua scomparsa fu accusato un povero squilibrato, poi assolto al processo. Il padre di Marco affermò poi con certezza che quel cunicolo era stato setacciato in lungo e in largo dalle forze dell’ordine, senza che il corpo del bambino fosse rinvenuto. Marco era andato al Borgo Don Bosco a vedere un film. Anch’io andavo al cinema in parrocchia, ma a San Felice, dalla parte opposta del quartiere. Ho qualche sbiadito ricordo di un Marcellino pane e vino pomeridiano.

Leggende e superstizioni, su quelle grotte, ce n’erano tante. Storie simili a quelle degli alligatori di New York, che hanno preso vigore quando il cemento ha aggredito i pratoni, negli anni ’70, tappando le buche dove noi cercavamo di infilarci a curiosare. Così una parte dei cunicoli sono stati trafitti dai pali di fondazione delle case, riempiti dai liquami, dalle infiltrazioni di fango, pioggia e perdite d’acqua, e popolati da una fitta fauna di zanzare, scarafaggi e topi.

Ogni tanto si segnalava un’invasione di ratti, ricordo bene quella di via Riofreddo, a Centocelle vecchia, che si riconosce dai toponimi dedicati ai paesi della Ciociaria. Un giorno, forse per un crollo avvenuto in qualche cunicolo sottostante, la strada si riempì di toponi che sciamavano, incuranti delle persone che tentavano di aprirsi un varco verso casa. Mondi che venivano accidentalmente a contatto, prima di rientrare nei rispettivi spazi.

Si dice che i cunicoli, oggi, siano poco sicuri. Non perché ci abiti una Shelob de’ noantri, che terrorizzi i passanti con i suoi artigli proteggendo una sua via del Monte Fato e una sua Mordor. Non perché quel dedalo oscuro sia il luogo che ha ispirato Tolkien per immaginare il sentiero dei morti percorso da Aragorn, tallonato dalla Grigia Compagnia. Oltre al pericolo di crolli e al fatto che solo una parte di quei cunicoli sia stata mappata, c’è la possibilità concreta che quel mondo buio ospiti qualche diseredato in cerca di riparo dalle intemperie. Un mondo di sopra che s’immerge e rende la pariglia ai ratti di via Riofreddo, spettro che evoca le storie sordide dei ragazzini che vivono nelle fogne di Bucarest. Lontane ma vicine, possibili anche qui, che già, forse, accadono.

Un mondo buio dove ci si può sottrarre alla vista di chi sta fuori, accecato dal buio dell’indifferenza. I partigiani lo frequentarono per combattere e per liberare la città. La dittatura e l’occupante nazista avevano ammorbato l’aria e terrorizzato la gente ma non sapevano penetrare in quel ribelle mondo sotterraneo, dove resistette la libertà che qualcuno voleva soffocare, prima di uscire fuori a riprendersi la luce.

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