Se qualcuno doveva morire per ripagare col sangue le sopraffazioni operate dai ricchi verso i poveri quella di certo non era Elisabetta d’Austria, meglio nota come Sissi. Ma si sa, la giustizia è bendata e la vendetta addirittura cieca.
Luigi Lucheni invece ci vedeva benissimo. E da quando era venuto al mondo non aveva osservato altro che prevaricazioni e sofferenze, soprusi e vessazioni, prepotenze e botte. Tutte sulla sua pelle e su quella dei poveracci come lui. Figlio di un rapporto proibito tra una bracciante e un proprietario terriero del parmese, partorito in Francia per evitare scandali, abbandonato dalla madre al primo vagito, trascorse gli anni dell’infanzia nell’orfanotrofio Enfants Trouvés di Parigi. Riportato ancora bambino in Italia fu affidato alla famiglia Nicasi che, desiderosa soltanto di accaparrarsi il contributo statale per la tutela, lo sfruttava ogni oltre misura, trattandolo assai peggio di uno schiavo. Contro questo fato avverso, appena quattordicenne, si diede al vagabondaggio; iniziò così il suo lungo viaggio in giro per l’Europa. A lungo manovale, passò in Svizzera e poi tornò in Francia, ma ovunque trovò ad attenderlo soltanto salari bassi, duro lavoro e poco pane.
Dopo una breve parentesi nell’esercito, che non amava affatto ma pensava potesse tornargli utile per sopravvivere, venne ingaggiato dal suo ex comandante, il principe Raniero d’Aragona. Fu al servizio di questo “nobiluomo” che il giovane Lucheni conobbe l’altra faccia della medaglia sociale. Abituato alla povertà, compagna di tutte le sue peregrinazioni, non riusciva proprio a capacitarsi del lusso, dello sfarzo, dell’ostentazione di cui si faceva vanto il mondo aristocratico. Presto abbandonò l’incarico. Aveva troppa rabbia in corpo e meditava vendetta. Tornato in Svizzera si avvicinò all’anarchia, abbracciando posizioni fortemente individualiste. Deciso a dimostrare con i fatti le proprie idee pensò che un gesto lampante gli avrebbe offerto il giusto palcoscenico per urlare al mondo tutto il suo odio e tutte le sue ragioni. Si munì di una lama triangolare, era troppo povero per permettersi una più comoda ed efficiente pistola. Completò l’arma con un’impugnatura di legno, e cominciò ad affilarla con cura in attesa del giorno in cui avrebbe incontrato qualche nobile petto.
Il principe Enrico d’Orleans era il pretendente più accreditato ma alla fine toccò alla malcapitata imperatrice d’Austria passare per Ginevra e far conoscenza con il fendente di Lucheni. E pensare che la povera Sissi (con questo vezzeggiativo diventerà famosa grazie al celebre sceneggiato degli anni cinquanta) era tutto tranne che dispotica e senza cuore. Anzi, come riportano i suoi diari, fin da giovanissima ella rifuggiva il ruolo sociale che le era stato imposto e nutriva forti sentimenti di vicinanza verso i suoi sudditi meno fortunati. Se fosse interessata più a migliorare la condizione dei meno abbienti che la sua leggendaria bellezza questo non possiamo dirlo. Come non possiamo affermare con certezza se la regina d’Austria e Ungheria preferiva muovere guerra all’odiata suocera o combattere le ingiustizie. Sicuramente non fu l’avanguardia della restaurazione. Forse malata di anoressia acuta o forse semplicemente inadatta al ruolo che ricopriva, Sissi passò la vita col desiderio di cambiare la monarchia ma finendo per isolarsi dalla corte. Menzionata più per le corse a cavallo, le cure dimagranti, le maschere notturne e le nuove acconciature che per i tentativi di modernizzare il regno austroungarico, l’ex principessa visse i suoi momenti migliori lontano dagli ambienti viennesi.
Ma la Sissi che incontrò la morte a Ginevra non era l’imperatrice di un tempo. Era una donna ormai anziana e schiva, conscia della bellezza perduta, distrutta dalla morte prematura del figlio Rodolfo, quella che il 10 settembre 1889 camminava lungo il Quai de Montblanc, verso il molo in cui un battello l’attendeva per salpare. Fu a pochi passi dalla meta che Lucheni sbucò da dietro una pianta e correndo in diagonale si avventò su Elisabetta d’Austria, trafiggendola con un unico colpo al centro del petto. L’attentatore cercò subito la fuga mentre l’imperatrice che era precipitata a terra si rialzava con l’aiuto della contessa di Sztàray. Inizialmente il colpo ricevuto non sembrava averle inflitto gravi danni, tanto che raggiunse il battello sulle sue gambe. Appena salita sul ponte però crollò improvvisamente e in breve tempo perse conoscenza. Il natante che era già salpato tornò al molo e la moribonda fu trasportata di corsa al suo albergo dove nel frattempo erano accorsi i medici. Ogni tentativo di salvarla fu vano, alle 14 e 40 Sissi spirò.
Intanto il suo assassino era stato fermato da alcuni passanti e poi preso in custodia dalla polizia. Al suo primo interrogatorio, rispondendo in merito alle motivazioni del suo gesto Lucheni rispose fieramente “perché sono anarchico, perché sono povero, perché amo gli operai e voglio la morte dei ricchi”. Portato dinnanzi alla corte in settembre, a Ginevra, nonostante avesse chiesto di essere processato a Lucerna ove vigeva la pena di morte, fu condannato all’ergastolo. Passerà dieci anni in prigione senza mai pentirsi, sobillando rivolte e cercando di uccidere perfino il direttore. Morì suicida, o forse no. Ciò che è certo fu la decapitazione postuma e la sua testa conservata in un barattolo di formalina.
Ancora oggi si discute se l’assassino di Sissi fu veramente l’atto rivoluzionario di un anarchico convinto, un semplice atto di violenza ispirato dalle ingiustizie del mondo o la brutale aggressione di un uomo psicologicamente labile. Sicuramente è stato il tentativo di passare alla storia operato al tempo stesso da un intrepido sovversivo, un ribelle confuso e un uomo segnato dentro dalla durezza della vita.
Un tentativo indubbiamente riuscito.
Matteo Minelli
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