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La notte che Jean-Jacques Liabeuf salì sul patibolo per essere trapassato dalla ghigliottina in piazza c’era mezza Parigi. Jean Jaures con i suoi socialisti, Victor Serge e gli anarchici, Gustave Hervé, all’epoca ancora fervente antimilitarista e pacifista, gli illegalisti armati di revolver, i nichilisti con la dinamite nelle tasche della giubba, gli operai e gli emarginati, le prostitute e i ragazzi di strada; tutti in corteo per impedire che a Liabeuf fosse mozzata la testa.

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La prima pagina della Guerre Sociale in difesa di Liabeuf.

La Francia radicale e quella dei miserabile diede battaglia. Battaglia vera. E ci mancò poco che i borghesi, venuti ad assistere al macabro rito in abito da sera, finissero per rimanere a bocca asciutta e con una bella bastonata sui denti. Ci volle un esercito di gendarmi, armati fino ai denti, per fermare quella folla inferocita che a colpi di pistola e forconate si faceva avanti in boulevard Arago.  E anche se alla fine fu tutto inutile, Jean-Jacques Liabeuf potè morire urlando le sue ragioni perché in diecimila lo stavano ascoltando.

Come questo figlio del popolo divenne un simbolo della lotta degli ultimi contro l’oppressione sociale è storia semplice. Jean-jacques Liabeuf nacque povero, e povero rimase per tutta la sua breve esistenza. Orfano di padre dalla giovanissima età, lavorò dapprima come armaiolo e poi come ciabattino. La sua adolescenza trascorse tra le privazioni e le fatiche, intervallate da brevi soggiorni nelle patrie galere, dovute ai piccoli furti di cui divenne protagonista. Che rubasse per fame o per insubordinazione poco importava alle autorità, tant’è che per dargli una lezione lo mandano a fare il servizio militare in Africa.

Quando tornò in patria decise di trasferirsi a Parigi visto che non poteva rientrare a Saint-Etienne, sua città natale, a causa di un divieto quinquennale che gli pendeva sulla testa. Nella capitale ricoprì le umili mansioni di sempre, garzone in una bottega di calzolai. Molti clienti, in seguito, lo descriveranno come un ragazzo onesto e competente. Forse la sua vita sarebbe continuata come quella di altri milioni di giovani poveri che si adattano a fare di tutto per vivere, se non avesse incontrato la bella Alexandrine Pigeon.

Per Jean-Jacques fu subito amore. Per Alexandrine anche. A dividerli c’era solo mestiere di lei. Alexandrine faceva la prostituta. Ma questo per Liabeuf non era un ostacolo insormontabile. L’amava ed era disposto a tutto per vivere quell’amore che la società gli aveva sempre rifiutato. Così decise che avrebbe strappato Alexandrine dal marciapiede per portarla con lui nella vita che avrebbero vissuto insieme. E probabilmente stava riuscendo nell’impresa visto che Gaston, protettore della giovane  e informatore della polizia, lo denunciò ai gendarmi, Maugras e Vors, che lo beccarono in compagnia del suo giovane amore.

Scattò subito il fermo e pure la denuncia. Sulla sua testa la pesante infamia di essere un magnaccia. Forse Jean-Jeacques poteva digerire l’arresto, il carcere, e tutte le annesse privazioni ma non poteva di certo accettare quell’ignobile accusa accostata al suo nome. Il 14 agosto 1909 veniva condannato a 100.000 franchi di multa, tre mesi di prigione e proibizione assoluta di risiedere a Parigi per cinque anni. L’elusione di quest’ultimo divieto gli costò un ulteriore mese dietro le sbarre. Quando uscì dal carcere l’amore che gli aveva occupato il cuore era ormai stato sfrattato dal desiderio di vendetta.

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La cattura di Liabeuf in un’immagine dell’epoca.

L’8 gennaio 1910 scese in strada con in testa un unico obiettivo, farla pagare ai poliziotti che lo avevano ingiustamente arrestato. A questo scopo si era fabbricato una speciale armatura, fatta di spalliere, bracciali e polsini di pelle pieni di chiodi pungenti. Mantello in spalla, pistola Hammerless nella cintura e coltello tra le mani alle ore otto del mattino Liabeuf incrociò una pattuglia in via Aubry-le-Boucher, che, forse messa in allarme da una soffiata, tentò di bloccarlo. La sua reazione fu immediata. Si scagliò contro i gendarmi. Ne uccise uno sparandogli, ne colpì seriamente un secondo alla gola e ne ferì altri tre superficialmente nel corso dell’arresto, grazie agli spunzoni che gli spuntavano dalle braccia.

Accusato di omicidio premeditato, violenze e aggressione contro le forze dell’ordine non negò nulla e anzi rincarò la dose dichiarando che avrebbe preferito ammazzare i due gendarmi che lo avevano arrestato la prima volta e che gli dispiace solo di non aver fatto più orfani.

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Le armi di Liabeuf.

Il prefetto Lepinè, personaggio passato alle cronache per aver fatto aprire il fuoco sui manifestanti del primo maggio, pretese ed ottenne la sua condanna a morte. La sentenza fu pronunciata il 4 maggio. Jean-Jeacque al momento della proclamazione abbandonò la stanza gridando  “Io non sono un pappone e la pena di morte non mi impedirà di protestare fino all’ultima goccia di sangue.”

E così effettivamente avvenne. Anche sul patibolo urlò la sua innocenza. L’innocenza di un uomo qualunque. Non un sobillatore, non un agitatore, non un rivoluzionario. Un orfano, un miserabile, un ciabattino che per amore era stato imprigionato e diffamato. Un alfiere di quel cosiddetto “sottobosco” di ladri, prostitute e ribelli che ai primi del novecento si fondeva in un’unica amalgama con operai, artigiani, apprendisti.

Jean-Jacque Liabeuf, il vendicatore con i bracciali d’acciaio. Jean-Jacques Liabeuf “l’ammazza-sbirri”.

 

 

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