di Pancrazio Anfuso
Avete mai ricevuto la telefonata di un call center che cerca di vendere qualcosa? A me capita di continuo, a casa o in ufficio. Il più delle volte si tratta di “commerciali” che cercano di vendere servizi telefonici, fissi o mobili, o connessioni a internet, oppure contratti per la fornitura di energia per conto delle decine di operatori presenti sul mercato. La telefonata può arrivare in giorni festivi o negli orari più strani, spesso dopo cena o in pausa pranzo. In genere i ragazzi che telefonano recitano una stanca pappardella preconfezionata e tirano dritto qualunque domanda gli si faccia. E insistono davanti a qualunque rifiuto, anche il più scortese. Si degradano così in ogni forma e vengono spesso trattati a parolacce. Ricordano un po’ i petulanti citofonatori della domenica, i testimoni di Geova, i piazzisti di enciclopedie e di prodotti inutili, quelli che consumavano i marciapiedi, insomma, nel fitto porta a porta dell’epoca anteriore ai call center.
Il punto è: perché si accetta di fare un lavoro così degradante, con orari così assurdi e, stando alle apparenze, pagato malissimo e privo di ogni forma di soddisfazione personale? Mentre ripenso all’inferno raccontato da Virzì in un suo vecchio film, mi rispondo che il call center che fa vendite telefoniche non è che l’ultimo dei lavori degradanti, oppure che è solo quello che emerge perché cerca in tutti i modi di incrociare la nostra attenzione e di convincerci a fare qualcosa di cui in massima parte ci pentiremmo. Perché si dovrebbe accettare di passare giornate intere a farsi mandare a quel paese da persone che stanno badando ai loro casi, e mai e poi mai avrebbero risposto alla chiamata se avessero saputo chi c’era dall’altra parte del filo? Facile dirlo: perché questo è quello che si trova da fare in giro, per chi resta fuori dal mercato del lavoro.
Non starò qui a ripetere le cifre della disoccupazione, che conosciamo tutti, e nemmeno a sviscerare i risultati striminziti del Jobs Act che il Governo cerca di contrabbandare per successi. Il problema è a monte di tutto ed è semplice: l’Articolo 1 della Costituzione, Principi Fondamentali, dice che “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Questo è (sarebbe) il caposaldo della nostra democrazia. La situazione che viviamo tutti i giorni dice che in Italia, però, il lavoro non c’è. E che la Repubblica Italiana è fondata, di fatto, su qualcosa che manca a troppi italiani. Si può dire che è fondata sul nulla, perciò, oppure sostenere che se viene a mancarne il presupposto salta per aria anche la democrazia.
Nel nostro Paese esistono tanti imprenditori seri, di piccolo/medio cabotaggio, che mandano avanti le loro aziende selezionando il personale e tenendosi stretti gli elementi migliori, visto che la ricchezza principale delle imprese è data dalla conoscenza e dal materiale umano. C’è l’esercito dei dipendenti pubblici, numeroso e insoddisfatto, spesso criticato, sovente a ragione.
C’è, poi, una massa informe di imprenditori/bandito che approfittano della situazione per sfruttare chi si trova in difficoltà. Vecchia pratica che prende fiato a pieni polmoni in questi tempi difficili.
Ci si può trovare senza lavoro, dall’oggi al domani, per mille motivi. La crisi degli ultimi anni ha visto molte aziende chiudere i battenti o avviare spaventosi processi di ridimensionamento e ristrutturazione. Tanti lavoratori sono precipitati nell’inerzia, protetti da un minimo di welfare, trovandosi di fronte a un mercato che non ha nessuna intenzione di riassorbirli, avendo messo nel mirino come (unico) parametro fondamentale il costo del lavoro.
Se aggiungiamo a chi ha perso il lavoro la moltitudine che spinge per trovare la sua prima occupazione, lo scenario diventa da incubo. Una realtà che non trova visibilità nel mainstream soffuso dei media e che sembra negata dalle pizzerie piene di cui parlava anni fa un capo del Governo, ma chi ha avuto la sfortuna di incappare in una disavventura lavorativa sa bene di cosa parlo. Chi non ha ancora avuto la sua opportunità, purtroppo, non sa neanche quello.
Il tutto costringe molti lavoratori a subire trattamenti allucinanti pur di restare occupati. Il lavoro, però, non è solo salario, e che salario (ripenso ai call center). Il lavoro è quello che si prende la maggior parte del tempo delle persone ed essere costretti a lavorare in realtà usuranti o mortificanti è una pena. Funziona così: si inquadrano le persone al di sotto del loro livello professionale, che viene quotidianamente negato, esplicitamente oppure di fatto. Si chiede loro di fare cose per le quali non c’è retribuzione, tipo lavorare 10 ore al giorno per riscuoterne 8.
Ci si disinteressa della loro personalità/professionalità e della loro esperienza, chiedendo loro di eseguire senza discutere e di uniformarsi a un modello standard che non si ritiene di dover riadattare solo perché a svolgerlo è un individuo con tutte le peculiarità per cui è stato scelto. Bella forza, se lo si è scelto solo per quello che poteva rendere con la spesa più bassa possibile. Aziende che poi si riempiono la bocca con la qualità e il made in Italy, apposto non di rado a qualcosa che si è prodotto altrove per approfittare dei salari bassi. Finanche i call center hanno delocalizzato la loro infima qualità, col risultato che ti ritrovi a parlare con qualcuno che vuole venderti qualcosa e che non ti ascolta, e se ti ascolta non ti capisce.
Tralascio poi le discriminazioni, appannaggio soprattutto delle donne e degli immigrati, di stampo razzista, sessuale o di genere, e tutta la triste letteratura sulla discriminazione delle lavoratrici madri è disperatamente attuale. C’è una distanza siderale tra chi regala promesse vuote in cambio di voti e chi vive in attesa di un colpo di “fortuna” che porti a uno stage, a un lavoro sottopagato o a un arrotondamento in nero. E in questo quadro ogni schiacciamento delle garanzie è praticato con tutta la forza da chi può trarne profitto. È la legge del mercato, baby.
Restiamo così precari e ci chiediamo se sia mai possibile cambiare questa situazione. Lo strumento che abbiamo in mano, il voto, sembra inutile. Non c’è nessuno che abbia in mano una ricetta che spinga verso la piena occupazione, a meno di non cinesizzare l’economia. Il che, forse, è proprio quello che sta accadendo, e la sensazione dolorosa che proviamo ogni volta che subiamo un sopruso sul luogo di lavoro è solo il segno tangibile della nostra dignità che viene negata e calpestata. Il che è come dire che negata e calpestata è la democrazia.