Tutte le definizioni usate nel testo sono citate dal vocabolario Treccani.
Su esperienza personale, il solo modo per amare è non pensare mai all’amore. Troppo severo, mi correggo: il miglior modo per amare è non pensare mai all’amore. A pensarci bene, il miglior modo per amare è non parlare mai d’amore. Ecco, questo posso dire, su esperienza personale. Ogni volta che lo fai, non importa con quanta accuratezza tu scelga le parole, resta sempre qualcosa d’irrisolto. L’irrisoluzione lascia piccoli strascichi d’incomunicabilità, che lascia piccoli strascichi di frustrazione, che ti fanno sentire incompiuto, solo, in qualche modo ti fanno sempre chiedere se stai amando davvero.
Il fatto è che amare non significa amare. Amare è una sequenza di cinque lettere in un certo ordine ormai codificato, questa è la verità. Anche la verità non è la verità, ma solo un nome preceduto da un articolo determinativo femminile singolare. Alla teoria che sostiene lo sterminato e salvifico potere delle parole (Abracadabra, la formula magica che tutto può, viene dall’aramaico Avrah KaDabra e significa “lo creerò con le parole”) io credo solo in parte. Su esperienza personale, è praticamente impossibile – per quanto continui a provarci – tradurre fedelmente quanto ci accade in linguaggio, mezzo ingegnoso, per carità, ma senza dubbio limitato e limitante.
Il linguaggio è soltanto uno dei tentativi. Tentativi di cosa? Vi chiederete. Di lasciare traccia di quello che succede all’anima dal momento in cui abita il corpo a quello in cui lo lascia per sempre. E quello che chiamiamo amore (love, amour, liebe, agapì, szeretet, ast) sembra essere, statistiche alla mano, un fatto piuttosto frequente e rilevante nella pletora dei possibili accadimenti dell’esistenza.
Parlare d’amore in termini filosofici significa cercarne l’origine, le cause e le implicazioni. Tratteggiarne una fenomenologia.
Fenomenologia: ricognizione ordinata dei fenomeni, descrizione del modo in cui si presenta e manifesta una realtà.
Realtà: la qualità e la condizione di ciò che è reale, che esiste in sé e per sé, o effettivamente e concretamente.
Concreto: ciò che è empiricamente individuabile o individuato.
Empirico: di ciò che appartiene all’esperienza; opposto a innato, razionale, puro.
Dice Derrida, il vocabolario è una spirale infinita che degrada verso la non-soluzione. Sostanzialmente, parlare significa sempre arrampicarsi sugli specchi, dal momento che ogni parola rimanda ad altre e che, comunque, il lessico nella sua interezza è sensibilmente più ristretto delle eventualità che tenta di descrivere.
Amore: sentimento di vera affezione verso una persona, che si manifesta come desiderio di procurare il suo bene e di ricercare la sua compagnia.
Fidandoci delle parole, il caso sarebbe chiuso. Invece i filosofi parlano d’amore da secoli e non prevedono di finire in giornata. Nella tradizione filosofica occidentale l’argomento sorge con Empedocle, poi passa per Platone, Aristotele, San Paolo, Marsilio Ficino, Giordano Bruno… Andando avanti veloce, si arriva a noi: Intelletto d’amore, alta disquisizione tra Giorgio Agamben e Jean Baptiste Brenet circa l’origine dell’amore e il luogo in cui risiede, a partire dalla lettura in chiave averroista della criptica poesia di Guido Cavalcanti Donna me prega.
Intelletto: la facoltà, propria dello spirito, o pensiero, di intendere le idee o di formare i concetti, o il potere conoscitivo della mente; contrapposta alla sensibilità.
La poesia di Cavalcanti, usata come punto di partenza per la ricerca, è densa di interpretazioni possibili. Ma Agamben e Brenet arrivano a convenire su una soluzione interessante: la risposta è nell’immagine.
Immagine: forma esteriore degli oggetti corporei, in quanto viene percepita attraverso il senso della vista.
Sembra doverosa una piccola rettifica, che rende più utile la definizione ai fini della nostra disquisizione. Chiaro è che l’immagine sia principalmente legata al vedere, ma in questa sede è più appropriato intendere l’immagine come un’idea, generata in potenza da uno qualsiasi dei nostri sensi (non è forse attraverso il tatto, l’udito, l’olfatto, il gusto, che i ciechi amano?) per poi venire ricomposta nella magica camera interiore in cui il mondo avviene.
Partendo da questo assunto, cioè che la risposta alle domande sull’amore sia da ricercare nell’immagine, è possibile asserire che amare sia prevalentemente una questione estetica. Con questo non voglio ridurre il fatto a una manciata di teorie triviali. Vorrei piuttosto rivalutare la reputazione dell’estetica in quanto processo di conoscenza, avanzare l’ipotesi che ogni esperienza sia, prima di tutto, un’esperienza estetica.
Estetica: letteralmente, dottrina della conoscenza sensibile.
L’estetica, tentando una semplificazione, è il procedimento attraverso cui il mondo (l’insieme di tutto ciò che ci capita intorno) viene assorbito dalla nostra sensibilità. Banalmente: vedo (sento, annuso, tocco, assaggio; leggo!) una cosa e quella cosa genera in me una sequenza di immagini, che genera a sua volta quella che Lacan chiama “catena di significati”. Ci viene in soccorso l’idea di metafora, figura retorica che crea un rapporto sottinteso tra locuzione e significato. L’estetica si occupa di trasferire significati alle immagini (μεταϕορά: dal greco, trasferimento); è possibile figurarcela come un’operaia che assembla metafore, prendendo immagini dal rullo di destra e significati dal rullo di sinistra e dotando quel binomio di sentimento.
Ecco, dunque, che l’amore prende la forma di una catena di immagini a cui vengono associati forti, ineffabili significati – catena generata da un’immagine archetipa che porta con sé un significato archetipo. E man mano che si ama è certo che la catena si arricchisca di nuove immagini, a loro volta archetipe di nuove catene che si legheranno alla precedente. Ed è confortante, almeno per me, credere che l’estetica abbia le sue leggi interne, imperscrutabili e indiscutibili, che destinano a proprio piacimento certe immagini all’amore; leggi maturate con l’esperienza o inconsapevolmente ereditate.
Sviluppare una propria coscienza estetica significa, in primo luogo, amplificare la nostra consapevolezza dell’applicazione di quelle leggi e, in secondo luogo, avere il coraggio di seguirle.
La gratitudine verso la nostra personale costellazione di immagini significative genera il desiderio di collezionarle e prendercene cura (della casa in cui mi sento al sicuro annaffio ogni giorno i gerani). Desiderio che talvolta può farci spavento, ma la cura è l’unica appagante ricompensa che abbiamo da offrire all’amore, quando silenzioso ci viene a trovare in una sera ventosa di fine estate, tra le rocce granitiche della Gallura. Questo posso dire, su esperienza personale.