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di Paolo Marchettoni

 

Una notizia dei primi di settembre ha messo fine alla mia estate, riportandomi sulla terra. La scelta coraggiosa di una ragazza raccontata sui quotidiani nazionali (meno coraggiosi): Serena Santurelli, consigliere comunale del Pd nei Castelli Romani, ha rassegnato le dimissioni dopo lo scandalo delle assunzioni in cambio di voti che ha portato all’arresto del sindaco.

Ambizione e arroganza vanno spesso a braccetto, ma anche orgoglio e coerenza per fortuna. Allora mi sono chiesto, come avranno fatto probabilmente migliaia di persone da sempre e ancor più in questi ultimi anni, e se ci rifiutassimo tutti? Proprio come ha fatto Serena.

Se ci rifiutassimo tutti? Cosa accadrebbe? Non ci è dato saperlo con certezza, o forse si.

Mi è subito tornato in mente un grande autore, morto troppo giovane ahimé, che si chiamava Etienne de La Boétie. Scrittore e uomo politico francese del ‘500 che, prima di andarsene, ha reso un gran servizio all’umanità scrivendo il “Discorso sulla servitù volontaria”, un libello di appena cinquantasette pagine, sufficienti ad accendere la passione di un certo Michel de Montaigne (che sarebbe il vero autore, secondo alcune indiscrezioni provenienti dall’ultimo convegno parigino su Montaigne) e che ancora oggi è capace di illuminare le menti.

La vera forza di La Boétie, riscontrabile in tutti i grandi ingegni nella storia dell’umanità, è che osservava da un’altra prospettiva. Il potere non è l’interlocutore principale del suo ragionamento, egli non si rivolge ad esso, come poteva essere per Machiavelli, poiché per lui la tirannia è sopportata e supportata da tutti.

Un tiranno, un leader, un partito e perfino un’assemblea sono investite di un potere per la volontà di coloro che scelgono volontariamente di mettersi al servizio, anche fosse solo attraverso il consenso, per ignoranza, o convenienza, di quel potere stesso rinunciando alla naturale libertà di tutti.
Ecco perché la servitù è volontaria.

La Boétie, capovolgendo in un colpo solo l’angolazione del pensiero filosofico-politico di tutta (o almeno buona parte) la tradizione europea, non si compiace con chi si è conquistato il comando, ma rimprovera semmai coloro che glie l’hanno concesso. Tutto ciò avveniva nel ‘500 in Francia, a Bordeaux, dove in giro per la città, passeggiando per le strade, si poteva incontrare Montaigne diretto, con tutta probabilità, in parlamento.

Eppure c’era stato un esempio nel passato, c’era stato un popolo che, ancora prima di essere popolo, aveva già preso tutte le precauzioni per far si che chi fosse al comando non si tramutasse in un tiranno, ma si mantenesse semplicemente un “delegato” della volontà popolare: gli antichi Romani.

I “re agrari” furono i primi quattro re di Roma, espressione del ceppo latino-sabino, un po’ rozzo e diffidente per natura (soprattutto verso gli Etruschi), religioso e disciplinato per necessità. Regole liturgiche scandivano la vita di questi uomini, che aravano i campi e discutevano in senato con la stessa devozione e severità con cui prendevano parte alle cerimonie religiose. Scordatevi le scuole e le belle palestre d’importazione greca quando pensate ai Romani di quest’epoca: la scuola era tra le mura domestiche, il padre era il maestro e la cultura più che altro disciplina; la palestra era dapprima la terra, con la vanga e l’aratro, poi l’esercito, con lo scudo e la spada. Più stoici di così, non si può.

E anche i re non facevano eccezione, in quanto non erano altro che comuni cittadini incaricati da tutti gli altri di assolvere alcune funzioni, soprattutto religiose.

La divisione del potere, prima ancora del divide et impera imposto dai tiranni, rispose semmai al divide et delega del popolo. Una monarchia piuttosto democratica, senza classi sociali (non ancora), divisa in tre tribù (dei latini, dei sabini e degli etruschi), a loro volta divise ciascuna in dieci curie (o quartieri), a loro volta divise ciascuna in dieci gentes (i clan), a loro volta divise in famiglie. Tutti erano uguali, in quanto tutti possedevano della terra, e tutti avevano il medesimo diritto di voto, che potevano esprimere ogni qualvolta si riuniva il comizio curato, che tra vari incarichi aveva anche quello di eleggere il re. Insomma, in poco più di un secolo dalla fondazione della Città questi signori avevano già posto in essere una democrazia, per certi versi, più all’avanguardia delle moderne democrazie del Novecento. Senza dubbio più diretta. Con il potere al servizio del popolo, al quale doveva sempre rispondere, e non viceversa.

Almeno fino all’avvento di Lucio Tarquinio, passato alla storia col nome di Tarquinio Prisco. In lui scorrevano sangue greco ed etrusco, niente di buono a sentire gli storici repubblicani che di lui scrissero peste e corna, consci in cuor loro che dopo il suo regno l’Urbe non fu più la stessa.

La dinastia dei re etruschi, infatti, sarà protagonista indiscussa della svolta assolutistica del regime monarchico, nonché responsabile di aver reso romana l’Etruria, seppur nella misura in cui rese Roma etrusca. Etruria capta ferum victorem cepit, avranno pensato gli antenati di Catone il Censore. Dopo di loro la Repubblica e il senato restituirono potere e privilegi alla componente latina e sabina, che alla fine prevalse su quella etrusca. Serviranno la Repubblica e il senato per rimettere sul trono di Roma dei tiranni degni di questo nome.

Ma che c’entrano gli antichi Romani, gli Etruschi e La Boétie con i Castelli Romani, il malcostume e la corruzione che dilagano nel mondo dalla notte dei tempi?

Niente. O forse, più semplicemente, aveva ragione Indro Montanelli quando diceva che “l’umanità, in queste faccende, non ha molto progredito, dai tempi di Numa”.

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