di Matteo Minelli
Per chi non lo sapesse Alexandre Marius Jacob è stato un anarchico, un illegalista, un teorico del furto politico.
Nato in quel di Amiens il 27 settembre 1879, ebbe come prima passione il mare. Figlio di navigatore si imbarcò giovanissimo alla ricerca di avventure e di quella libertà che solo l’oceano può donare. Inconsapevolmente mozzo in un vascello pirata divenne disertore suo malgrado. Rientrato in patria fu fermato e poi scarcerato, vista la giovane età.
Sceso per sempre dai vascelli a diciassette anni Jacob decise di salire su una nuova nave. Quella dell’anarchia. Per le sue idee prima che per i suoi furti, infatti, finì ancora in galera. Non aveva nemmeno vent’anni quando venne arrestato con i compagni Rapallo e Babault. Non c’era refurtiva nella sua casa, non aveva ancora mai aperto casseforti e porte blindate. Ma per i gendarmi era colpevole lo stesso. Colpevole di appartenere alla Jeunesse Internazional e di collaborare con l’Agitateur, noto giornale sovversivo. Colpevole di fabbricare esplosivi mai ritrovati. Sei mesi di carcere e le fabbriche di Marsiglia chiuse per sempre.
E così decise che se non poteva attraversare le porte delle fabbriche avrebbe aperto le case dei loro proprietari. Da una riflessione sullo stato della battaglia contro il potere e da un tensione emotiva sempre più forte, nasce il Marius Jacob che è passato alla storia. Fu nei bassifondi di Marsiglia che il nostro comprese la sua missione. Non l’agitatore, non il militante, non il dinamitardo. Sarebbe entrato in un altro “esercito”. Un esercito senza gradi, senza medaglie e senza disciplina. L’esercito dei ladri. Ma lo fece indossando una divisa che pochi altri prima e dopo lui hanno avuto la forza di portare. Quella del ladro politico votato alla causa della restituzione individuale. Si perché Jacob non rubava né per divertimento, né per denaro: rubava per amore dell’anarchia. Iniziò così la sua speciale lotta di classe, combattuta a colpi di piede di porco, grimaldello e false identità. La rivoluzione del bottino. Togliere ai notabili per dare ai fratelli anarchici.
Arrivò presto il primo grande colpo al Monte di Pietà. Travestito da poliziotto non soltanto svaligiò tutto ma ridicolizzò il proprietario e i pubblici ufficiali, conducendolo fin dentro la sede del Palazzo di Giustizia e lasciandolo li in attesa di un giudice che non arriverà mai. Seguirono le inchieste, le condanne in contumacia e un nuovo arresto.
Ma una cella era troppo piccola per contenere le idee ribelli di Jacob che dopo essersi finto pazzo evase dal manicomio. Ritornato al lavoro di ladro, formò la banda dei “Travailleur de la Nuit” con cui compì una serie incredibili di colpi. Le cronache parlano di 156 furti con scasso, intramezzati da fughe, evasioni e qualche sparatoria. Tra le effrazioni più celebri quella ai danni della regina del Belgio nel castello di Spa e quella nella cattedrale di Tours. Si narra che Jacob e i suoi siano arrivati a rubare perfino in Egitto.
Un carriera breve ma incredibile, sopratutto perché l’espropriazione anarchica dei Travailleur colpì sempre notabili, industriali, aristocratici, affamatori del popolo, e i ricchi bottini vennero in gran parte devoluti alla causa, per sostenere disoccupati, emarginati, incarcerati, per pagare gli avvocati dei sovversivi e finanziare i giornali anti-sistema. Una carriera intensissima che si concluse con l’arresto, la condanna e i lavori forzati nella terribile Guyana francese.
Era il 13 gennaio 1906 quando Jacob arrivò alle Isole della Salvezza. Mai nome fu meno indicato. Lo aspettano altri ventuno anni di carcere, di cui diciannove in uno dei luoghi più inospitali e malsani del continente sudamericano. Non mancheranno coraggiosi tentativi di evasione, tutti amaramente falliti. Il 30 dicembre 1927 finalmente tornò in libertà. Ex forzato ai bagni penali ed ex ladro, ma mai ex anarchico. Jacob visse il resto della sua vita come venditore ambulante senza mai rinnegare il passato e i suoi ideali.
L’ultimo colpo di scena Jacob lo compì all’età di 75 anni quando, ancora lucido e in salute, decide di togliersi la vita con una dose letale di morfina. La sua ultima cena è quella che offre ad una decina di bambini di Bois Saint-Denis.
Negli anni seguenti alla sua morte Alexandre Marius Jacob è stato forzatamente accostato alla figura di Arsenio Lupin. Secondo certe fonti Maurice Leblanc, l’inventore del “ladro gentiluomo”, avrebbe preso spunto dalla figura del nostro espropriatore per dare vita ad uno dei personaggi più celebri di sempre. Che sia vero o meno, mai parallelismo è stato così poco azzeccato. Se infatti possono esserci somiglianze e punti di contatto tra la figura reale e quella inventata, a fare la differenza è la motivazione alla base dei furti. Lupin ruba per denaro, per le donne, per la bellezza degli oggetti, per desiderio di avventura. Jacob, lo abbiamo detto, ruba per l’anarchia. E se è vero che entrambi tolgono ai ricchi, Arsenio tiene per se il maltolto, Marius invece usa il furto per finanziare una causa e come mezzo di una più complessa e articolata battaglia politica. Ne consegue anche la diversità delle due esistenze. Quella di Lupin fatta di sfarzo e salotti, quella di Jacob passata nelle bettole malfamate e tra gli ultimi degli ultimi. Insomma due storie, una vera, una di fantasia, completamente diverse tra loro.
E allora, la parola a Alexandre Marius Jacob, che nel marzo del 1905, mentre era sotto processo, si rivolse così ai suoi accusatori. Il discorso è fin troppo chiaro, e spiega meglio di ogni biografia, chi fosse quest’uomo.
Signori,
Adesso sapete chi sono: un ribelle che vive del ricavato dei suoi furti. Di più. Ho incendiato diversi alberghi e difeso la mia libertà contro l’aggressione degli agenti del potere. Ho messo a nudo tutta la mia esistenza di lotta e la sottometto come un problema alle vostre intelligenze. Non riconoscendo a nessuno il diritto di giudicarmi, non imploro né perdono né indulgenza. Non sollecito ciò che odio e che disprezzo. Siete i più forti, disponete di me come meglio credete. Inviatemi al penitenziario o al patibolo, poco m’importa. Ma prima di separarci, lasciatemi dire un’ultima parola…
Avete chiamato un uomo: ladro e bandito, applicate contro di lui i rigori della legge e vi domandate se poteva essere differentemente. Avete mai visto un ricco farsi rapinatore? Non ne ho mai conosciuti. Io, che non sono né ricco né proprietario, non avevo che queste braccia e un cervello per assicurare la mia conservazione, per cui ho dovuto comportarmi diversamente. La società non mi accordava che tre mezzi di esistenza: il lavoro, la mendicità e il furto. Il lavoro, al contrario di ripugnarmi, mi piace. L’uomo non può fare a meno di lavorare: i suoi muscoli, il suo cervello, possiedono un insieme di energie che deve smaltire. Ciò che mi ripugnava era di sudare sangue e acqua per un salario, cioè di creare ricchezze dalle quali sarei stato sfruttato. In una parola, mi ripugnava di consegnarmi alla prostituzione del lavoro. La mendicità è l’avvilimento, la negazione di ogni dignità. Ogni uomo ha il diritto di godere della vita. «Il diritto di vivere non si mendica, si prende».
Il furto è la restituzione, la ripresa di possesso. Piuttosto di essere chiuso in un’officina come in una prigione, piuttosto di mendicare ciò a cui avevo diritto, ho preferito insorgere e combattere faccia a faccia i miei nemici, facendo la guerra ai ricchi e attaccando i loro beni. Comprendo che avreste preferito che mi fossi sottomesso alle vostre leggi, che operaio docile avessi creato ricchezze in cambio di un salario miserabile, e che, il corpo sfruttato e il cervello abbrutito, mi fossi lasciato crepare all’angolo di una strada. In quel caso non mi avreste chiamato “bandito cinico”, ma “onesto operaio”. Adulandomi mi avreste dato la medaglia al lavoro. I preti promettono un paradiso ai loro fedeli, voi siete meno astratti, promettete loro un pezzo di carta.
Vi ringrazio molto di tanta bontà, di tanta gratitudine. Signori! Preferisco essere un cinico cosciente dei suoi diritti che un automa, una cariatide. Dal momento in cui ebbi possesso della mia coscienza, mi sono dato al furto senza alcuno scrupolo. Non accetto la vostra pretesa morale che impone il rispetto della proprietà come una virtù, quando i peggiori ladri sono i proprietari stessi. Ritenetevi fortunati che questo pregiudizio ha preso forza nel popolo, in quanto è proprio esso il vostro migliore gendarme. Conoscendo l’impotenza della legge, o per meglio dire, della forza, ne avete fatto il più solido dei vostri protettori. Ma, state accorti, ogni cosa finisce. Tutto ciò che è costruito dalla forza e dall’astuzia, l’astuzia e la forza possono demolirlo.
Il popolo si evolve continuamente. Istruiti in queste verità, coscienti dei loro diritti, tutti i morti di fame, tutti gli sfruttati, in una parola tutte le vostre vittime, si armeranno di un “piede di porco” assalendo le vostre case per riprendere le ricchezze che essi hanno creato e che voi avete rubato. Riflettendo bene, preferiranno correre ogni rischio invece d’ingrassarvi gemendo nella miseria. La prigione… i lavori forzati, il patibolo… non sono prospettive troppo paurose di fronte ad una intera vita di abbrutimento, piena di ogni tipo di sofferenze. Il ragazzo che lotta per un pezzo di pane nelle viscere della terra senza mai vedere brillare il sole, può morire da un momento all’altro, vittima di una esplosione di grisou. Il muratore che lavora sui tetti, può cadere e ridursi in briciole. Il marinaio conosce il giorno della sua partenza ma ignora quando farà ritorno. Numerosi altri operai contraggono malattie fatali nell’esercizio del loro mestiere, si sfibrano, s’avvelenano, si uccidono nel creare tutto per voi. Fino ai gendarmi, ai poliziotti, alle guardie del corpo che, per un osso che gettate loro, trovano spesso la morte nella lotta contro i vostri nemici.
Chiusi nel vostro egoismo, restate scettici davanti a questa visione, non è vero? Il popolo ha paura, voi dite. Noi lo governiamo con il terrore della repressione; se grida, lo gettiamo in prigione; se brontola, lo deportiamo, se si agita lo ghigliottiniamo. Cattivo calcolo, signori, credetemi. Le pene che infliggete non sono un rimedio contro gli atti della rivolta. La repressione, invece di essere un rimedio, un palliativo, non fa altro che aggravare il male.
Le misure coercitive non possono che seminare l’odio e la vendetta. È un ciclo fatale. Del resto, fin da quando avete cominciato a tagliare teste, a popolare le prigioni e i penitenziari, avete forse impedito all’odio di manifestarsi? Rispondete! I fatti dimostrano la vostra impotenza. Per quanto mi riguarda sapevo esattamente che la mia condotta non poteva avere altra conclusione che il penitenziario o la ghigliottina, eppure, come vedete, non è questo che mi ha impedito di agire. Se mi sono dato al furto non è per guadagno o per amore del denaro, ma per una questione di principio, di diritto. Preferisco conservare la mia libertà, la mia indipendenza, la mia dignità di uomo, invece di farmi l’artefice della fortuna del mio padrone. In termini più crudi, senza eufemismi, preferisco essere ladro che essere derubato.
Certo anch’io condanno il fatto che un uomo s’impadronisca violentemente e con l’astuzia del furto dell’altrui lavoro. «Ma è proprio per questo che ho fatto guerra ai ricchi, ladri dei beni dei poveri». Anch’io sarei felice di vivere in una società dove ogni furto fosse impossibile. Non approvo il furto, e l’ho impiegato soltanto come mezzo di rivolta per combattere il più iniquo di tutti i furti: la proprietà individuale.
Per eliminare un effetto bisogna, preventivamente, distruggere la causa. Se esiste il furto è perché “tutto” appartiene solamente a “qualcuno”. «La lotta scomparirà solo quando gli uomini metteranno in comune gioie e pene, lavori e ricchezze, quando tutto apparterrà a tutti».
Anarchico rivoluzionario, ho fatto la mia rivoluzione, l’anarchia verrà!
Gran parte delle informazioni contenute in questo articolo sono dal bellissimo testo di Jean-Marc Delpech edito da elèuthera, intitolato “Rubare per l’anarchia”.
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