di Francesco Merlino
La notte alle Zattere: vorrei fosse così l’aldilà.
Il vento freddo ti riscalda.
Guardare dall’altra parte del mare e non trovare l’orizzonte, ma tante case bidimensionali come quelle dei disegni dei bambini che hanno il cielo che è solo una riga azzurra in alto.
Le finestre con le luci gialle accese sembrano le televisioni dure a morire di chi finisce per addormentarsi sul divano, nel tentativo invano di eludere la fine del giorno.
Catalizzano lo sguardo, che non può fare a meno di entrare nelle vite degli altri. E “gli altri” che immagini a Venezia sono sempre persone affascinanti. Sono pittori, poeti e sognatori. O anziane signore che si truccano pesante, abusate e consumate come vecchi santini incastrati nei cruscotti delle automobili, ormai privi della loro originaria sacralità.
L'”Ospedale degli Incurabili” è una sconcertante prova di onestà nonché un ossimoro gigante. Ammette che in fondo nessuno si può curare, che ogni cura non è altro che un rinvio inesorabile al futuro ma, al contempo, fa pensare che forse una cura esiste, anche se fosse solo un sollievo momentaneo. Così è anche per Venezia, la cui bellezza è solo temporanea, costantemente in pericolo, affidata al paradosso dei mattoni che galleggiano sull’acqua. La guardi e ti chiedi quando finirà.
Si trova lungo il cammino, l’ex ospedale degli incurabili, che oggi è sede dell’Accademia di Belle Arti.
La sua presenza dà il nome a quel segmento magico di strada che si chiama “Zattere agli Incurabili”. Qui c’è un lungo muro, non abbastanza alto da nascondere le alte fronde degli alberi di un giardino. Lungo il muro è incastrata una porta, fatta dell’intervallo regolare di vetro e metallo. L’intervallo è molto breve e non consente bene agli occhi di incastrarsi tra le sbarre di metallo e di guardare oltre. Lì dietro, in quel luogo reso magico dalla sua impervia accessibilità visiva, ogni dicembre veniva a stare Iosif Broskij.
Se chiedete ad un veneziano che ama la letteratura chi sia, tra i tanti, il poeta che più ha saputo cantare Venezia, sulla sua risposta non ci saranno dubbi.
E cantare Venezia è complicato perché è una materia usurata. Solo il nome evoca e porta con sè troppe immagini consumate dal tempo. Ma Brodskij fu l’eccezione, fu il più grande cantore di Venezia, al punto che sembra la città ad essersi forgiata dalle sue parole e non le parole ad essere state ispirate dalle immagini della città.
Arrivava ogni dicembre, dal 1972, l’anno in cui fu esiliato dall’Unione Sovietica ed iniziò a girare la terra, fino alla sua morte. Diceva che in inverno Venezia si faceva più bella, e forse è vero. Forse è vero perché dicembre è il mese della fine e questo luogo pare costantemente sul punto di finire, giù, inghiottito dall’acqua. Forse è vero perché l’inverno aggiunge morte alla morte imminente di questa città paradossale, costretta a vivere due vite o nessuna, sdoppiata dall’acqua che le regala una gemella tremolante, come i sogni prossimi a svanire, ma che potrebbe risucchiarle entrambe in un colpo solo.
È un luogo paradossale tanto come un ragazzo russo che abbandona la scuola a quindici anni e vince il Nobel per la letteratura, concedendo a tutti i sognatori l’infame permesso di poter credere che abbia un senso ribellarsi.
“Fondamenta degli Incurabili” non è solo un segmento magico di strada lungo la fondamenta delle Zattere, è anche un libro di Iosif Brodskij. È la carezza che lascia sul volto di Venezia, fatta di poesia, che è la più sublime delle cure inutili.
Fondamenta degli Incurabili comincia proprio da lì, dalla banchina bagnata dal canale della Giudecca, di fronte al vecchio ospedale. Ma il protagonista non è Venezia, ma l’occhio umano, “il più indipendente dei nostri organi”, che si arroga il diritto di catturare ciò che vuole delle immagini che vede.
Ma questa è la città del paradosso, dove tutto si ribalta. Così chi arriva alla Fondamenta degli Incurabili si accorge che è Venezia ad aver catturato, per sempre, gli occhi del poeta, Iosif Brodskij.
Grazie per queste parole