di Francesco Merlino
Ho ucciso un uomo.
È successo l’altra notte.
Ero in casa e le luci del giardino si erano spente per magia, erano state svitate.
Ho sentito un frastuono di vetri infranti.
Sono salito al piano di sopra ed una finestra era sfondata.
Lei l’aveva scoperto, era entrata nella stanza buia prima di me con una torcia in mano, ed il cerchio luminoso è subito andato ad illuminare i vetri squarciati a grandezza d’uomo.
Lei ha urlato di scappare.
Odio le urla, mi gelano il sangue.
Mi ricordano che siamo vulnerabili.
Predicano case senza mura né frontiere, eppure anche dentro le mura abbiamo paura.
L’ho presa come fosse un oltraggio quella finestra rotta, un’ingiustizia troppo fastidiosa. Per me non sarebbe dovuta esistere un’ingiustizia così.
Lei è scappata giù dalle scale ed io ho chiuso la porta di scatto, tenendo la maniglia con entrambe le mani ed impuntando i piedi contro il muro. Aspettavo da un istante all’altro che qualcuno arrivasse dall’altra parte a tirare ma sapevo che tutta la mia forza, anche quella che non avevo mai avuto, era lì, concentrata su quella maniglia, e che quella porta non si sarebbe aperta per nulla al mondo
Ma non arrivò nessuno.
E allora ho lasciato la presa e l’ho raggiunta fuori di casa.
Siamo scappati veloci come il vento, alle nostre spalle la casa con le luci ancora accese ed il dubbio che ci fosse ancora qualcuno dentro.
Siamo scappati veloci come il vento ed alle nostre spalle abbiamo lasciato la nostra tranquillità, che è il più santo dei diritti dell’uomo.
Eppure non c’è più la tranquillità.
E questo pensiero mi fece diventare pazzo e fu in quell’istante che sentii con certezza il momento in cui mi trasformai in qualcosa che non ero mai stato.
Qualcuno direbbe una bestia, ma non penso che questa parola sia adatta a descrivere il male che sentivo dentro, il male che sentivo di voler fare.
Perché le bestie non fanno mai del male, sono solo le persone a farne.
E allora fu la prima volta che mi sentii una persona, pronto a dare dolore senza provar rimorso. Anzi, provando piacere.
Fu così che uccisi un uomo.
Tornai dentro e lo vidi ancora lì, senza sapere cosa stesse facendo o cosa stesse provando, senza sapere se fosse un disperato o un disgraziato, non me ne importava nulla.
L’ho colpito con la mazza da baseball, dritto in pancia e poi sulla nuca quando si è piegato in avanti.
Caduto per terra l’ho trascinato per i piedi lungo le scale, più veloce che potevo, e la sua faccia sbatteva rovinosamente ad ogni scalino e ad ogni suo suono di dolore cresceva la mia voglia di dargliene ancora.
L’ho preso a calci violenti sui fianchi mentre era steso a terra, ma mai in faccia, perché volevo vederla distorcersi in naturali smorfie di sofferenza, era lì che sedimentava il mio piacere.
Ad ogni calcio si muoveva come un verme.
Mi chiedeva perdono ed io non l’ascoltavo, non facendomi tentare nemmeno per un secondo.
Poi gli ho piantato la mazza da baseball contro la gola, parallela alle sue spalle, ed ho iniziato a premere con tutto il mio peso ed il peso di tutti quelli che avrebbero voluto essere al mio posto ma non ne avevano avuto l’occasione.
Il suo volto ha cambiato espressione e poi colore, e quando mi resi conto che era sul punto di morire decisi di lasciare la presa, così che conservasse almeno per qualche istante il ricordo della paura della morte che è peggiore della morte stessa.
Poi, mentre i suoi occhi mi guardavano inorriditi e terrorizzati, i miei lo riguardavano.
Provo profonda pena per i gatti morti, schiacciati per errore lungo la strada. Provo profonda pena per loro perché se ne vanno senza che nessuno se li ricordi.
Ma non ho provato pena nemmeno per un istante per lui che era una persona, lui che aspettava inerme con la schiena contro il pavimento che io lo schiacciassi.
Così, mentre il suo respiro riprendeva piano piano il ritmo regolare e le sue mani poggiavano lentamente a terra nella speranza di poterlo rialzare, io gli ho sparato in mezzo agli occhi, che non si chiusero, ma rimasero aperti, conservando la sua paura di me per sempre.
Mi chiedo quando finirà.
Ma penso sinceramente che non finirà mai.
Ci sono cose che gli uomini sanno che sono vere e proprio per questo non hanno il coraggio di dire e allora si trovano tante storie e tante giustificazioni che sono la morfina che rende più dolce questo mondo.
Ma la verità è che ci hanno tolto la tranquillità e con essa la serenità che era l’unica piacevole ambizione che potevamo avere. Ci hanno tolto tutto, anche noi stessi.
Ci hanno fatto diventare assassini, dandoci anche una giustificazione.
E così, in preda alla disperazione, denudato dalle storie che mi racconto, dai miei “va tutto bene”, ho ucciso un uomo.
Poco importa che sia stato solo nella mia mente, perché è da lì che viene fuori tutta la realtà.
E ciò che più mi spaventa è che non mi sento colpevole. Ora che il terrore ha reso tutti assassini.