di Matteo Minelli
#MorireDiCiviltà/2
Molti illustri pensatori, figli di grandi ma comunque misere Civiltà, si sono interrogati sul significato del suicidio e, immancabilmente, hanno addotto mirabili argomenti pro e contro questo estremo gesto. Tra coloro che hanno condannato il suicidio vanno annoverati Aristotele, che lo considerava un crimine contro se stessi e la propria comunità, San Tommaso, che lo riteneva un atto contro Dio, Immanuel Kant, secondo cui era immorale, Schopenauer, Sant’Agostino, Plotino e molti altri ancora. Al contrario in diverse epoche e da diverse scuole di pensiero il suicidio è stato visto come atto assoluto di libertà umana, come supremo gesto di sacrificio o come azione politica dimostrativa. Sarà per questo che molti suicidi sono passati alla storia assurgendo a simboli di lotte sociali o a esempi di straordinaria forza morale individuale. Ci si suicida per coraggio insomma, ma anche per viltà, ci si suicida per vergogna o per paura, per rabbia, per amore, per fanatismo. Ci si suicidava nel passato e ci si suicida ancora oggi, e sempre, l’atto volontario di togliersi la vita ha creato approvazione, interesse, scalpore, disgusto. Per questo di ogni suicidio dei giorni nostri indaghiamo cause remote e prossime, modalità attuative, colpevoli presunti e tali, significati razionali e folli che si celano dietro al fatidico gesto. Se poi il suicidio è correlato all’omicidio, ebbene, allora entriamo in un vortice di trasporto e coinvolgimento inaudito. Chiunque si uccida e ovunque lo faccia noi dobbiamo saperlo, dobbiamo esploralo, dobbiamo analizzarlo.
Eppure nessun titolo di giornale, nessuna trasmissione no-stop, nessun opuscolo formativo è stato dedicato ad un suicidio di proporzioni così vaste e dilaganti da non avere forse pari nella storia. Un suicidio che ha in bocca il sapore amaro di una sconfitta inevitabile. Non stiamo parlando della fine clamorosa di una delle tante sette millenariste che aspettano la fine del mondo, stiamo parlando del suicidio di massa dei popoli tribali. Ovunque nelle tribù civilizzate si registrano tassi di suicidi elevatissimi. E I Guranì-Kaiowa all’interno di questa triste classifica occupano il gradino più alto del podio.
I Gurananì, popolazione indigena del Sudamerica, situati tra Brasile (dove costituiscono il gruppo autoctono più numeroso), Argentina, Paraguay, Uruguay e Bolivia, si suddividono in tre grandi gruppi, I Kaiowa, i Mbya e i Nandeva e attualmente la loro popolazione complessiva è stimata intorno ai 55.000 individui. Storicamente popolo di agricoltori taglia e brucia, vivevano in villaggi temporanei costituiti da quattro immense capanne rettangolari, chiamate maloca, realizzate con tronchi di legno, paglia e intonacate col fango, capaci di ospitare fino a cento persone. Noti da sempre come indios indomiti e bellicosi, hanno resistito a lungo alla civilizzazione.
Per primi furono gli Inca a volerli inglobale nel loro maestoso impero, ma uscirono con le ossa rotte dall’incontro con questi guerrieri della foresta. Poi fu la volta degli europei. Gli spagnoli, che, nel 1527, guidati Sebastiano Caboto iniziarono ad occupare l’odierno Paraguay, probabilmente furono i primi non continentali incontrati dai Guaranì. Dopo alcuni anni di pace armata il rapporto tra locali e “clandestini” degenerò con l’arrivo di numerosi coloni e con l’introduzione dell’encomienda, un istituto giuridico ed economico, attraverso il quale un encomendero riceveva dalla corona spagnola il diritto di controllo di un determinato territorio con annessi gli indigeni che vi vivevano e che ovviamente dovevano essere cristianizzati e sottomessi.
Le condizioni degli indios assoggettati divennero insopportabili; i Guaranì reagirono con una guerra fatta di imboscate e ripiegamenti nel fitto della foresta. Incapaci di sottomettere le tribù con l’uso delle armi alla fine gli spagnoli decisero di affidare agli ordini religiosi, i gesuiti in particolare, l’opera di pacificazione. A partire dal seicento i Guaranì vennero cristianizzati e organizzati in numerose riduzioni, piccoli villaggi, che se da un lato estendevano ai nativi le garanzie regie di cui godevano i missionari, dall’altro ne compromettevano definitivamente cultura, usi e costumi. I gesuiti finirono per attirarsi addosso i risentimenti degli encomenderos, privati di manodopera gratuita, e dell’amministrazione creola che mal digeriva la presenza di questa sorta di stato nello stato.
Le autorità centrali spagnole risolsero la questione cedendo, con il Trattato di Madrid, il territorio delle riduzioni al Portogallo. I Guaranì, in qualità di sudditi del re di Spagna, avrebbero dovuto lasciare le loro terre, passare le frontiere e attestarsi nei nuovi confini, ma rifiutarono. Fu l’inizio della cosiddetta guerra guaranitica che vide impegnate le truppe portoghesi tra il 1750 e il 1756. Il conflitto si concluse con il massacro degli indigeni e con l’annientamento di quei missionari che avevano voluto restare al loro fianco. I Guaranì, mai veramente domi, attesero lo sfaldamento degli imperi coloniali e parteciparono poi attivamente alla lotta di indipendenza del Sudamerica al seguito di Simon Bolivar, che dopo la vittoria, accordò loro ab aeterno una terra in cui vivere. I suoi successori tuttavia, lungi dal rispettare le sue volontà, trattarono ancora i Guaranì alla stregua di schiavi. Riesplose allora la guerra che a intermittenza durò per più di mezzo secolo. Nel 1892, le ultime resistenze dei Guaranì si spensero a Kurujuky. Dalla metà del XIX secolo i nuovi governi istituirono dei registri per censire i Guaranì ed organizzarono vere e proprie spedizioni per catturare gli indios che vivevano ancora liberamente nella foresta. I territori a loro disposizione si ridussero ulteriormente e la popolazione, che nel periodo finale delle riduzioni contava 200.000 appartenenti, all’inizio del novecento si ridusse ad appena 120.00 individui.
Solo a partire dagli anni ottanta dello scorso secolo le tribù guaranì hanno potuto cominciare ad organizzarsi per rivendicare i propri diritti. Attualmente questo popolo, che solo in Brasile occupa un territorio di 350.000 chilometri quadrati, vive in minuscole riserve circondate da allevatori e agricoltori che, spesso supportati dalle autorità governative, li utilizzano come lavoratori e basso costo e ne minacciano costantemente l’incolumità. Dinnanzi a queste continue vessazioni alcuni Guaranì hanno iniziato da tempo una protesta pacifica basata sull’occupazione di una piccola parte delle loro terre ancestrali. La reazione dei proprietari delle fazende interessate è stata di un’aggressività inaudita. Molti indigeni sono stati pestati a sangue da squadroni della morte assoldati dai proprietari dei ranch; Marcos Veron, uno dei leader del movimento, fu ferocemente assassinato. Le violenze e una sentenza dei tribunali brasiliani misero fine al legittimo tentativo di riappropriazione delle terre ancestrali.
Nel corso degli ultimi mondiali tenutisi in Brasile i Guaranì ed altri popoli indigeni amazzonici hanno invano tentato di porre all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale il loro caso. Durante la cerimonia di apertura, uno dei tre ragazzi addetti alla liberazione delle colombe ha esposto uno striscione per chiedere la demarcazione e la tutela dei territori degli indios. Le FIFA ha completamente oscurato il gesto, cambiando inquadratura all’inizio della protesta. Anche Nixiwaka Yawanawá, con il volto dipinto e il copricapo tipico della sua tribù, ha accolto a Londra la coppa del Mondo con una maglietta di protesta in cui si chiedeva al governo brasiliano di porre fine alle violenze contro gli indios. FIFA e Coca-Cola, uno dei maggiori compratori di canna da zucchero proveniente dalle terre tolte ai Guaranì e sponsor della manifestazione calcistica, hanno imposto anche in questo caso la censura.
Stritolati tra gli allevamenti di bestiame, i campi di soia e quelli destinati alla produzione di biocarburante, repressi con brutalità, i Guaranì vivono, specialmente in Brasile, in condizioni terrificanti. Ammassati in villaggi discariche ai bordi della strada, sono intossicati dai pesticidi usati nelle coltivazioni intensive e di fatto impossibilitati a muoversi liberamente poiché risultano oggetto di autentiche cacce all’uomo da parte degli squadroni della morte al servizio di latifondisti e mandriani. Perciò mentre continuano gli omicidi su commissione dei loro leader (nel dicembre 2013 è toccato ad Ambrósio Vilhalva, noto anche per aver partecipato al film di denuncia La terra degli uomini rossi) e si intensificano le proposte legislative supportate dalle lobby per completare l’opera di distruzione dei loro territori, per molti Guaranì l’unica alternativa sembra la via del suicidio.
I numeri sono fin troppo chiari: dal 2000, almeno un Guaranì-Kaiowa alla settimana si è suicidato, e forse anche di più visto il tentativo delle autorità di silenziare mediaticamente il fenomeno. La maggior parte delle vittime, perché è di vittime del nostro stile di vita e del nostro progresso che si sta parlando, aveva tra i 15 e i 29 anni, la più giovane appena nove. Il tasso di suicidi della tribù è di 34 volte superiore a quello della media del Brasile. Eppure anche questo estremo gesto che si ripete giorno dopo giorno, figlio tanto della sconfitta quanto del coraggio, sembra essere destinato alla stessa sorte di chi lo compie: l’oblio. Il suicidio dei Guaranì forse non avrà l’altezza poetica di quello del giovane Werther, forse non colpirà le coscienze come quello di Thích Quảng Đức, forse non diventerà simbolo di una generazione intera come quello di Jan Palach, ma forse, più di tutti questi atti messi insieme, rappresenta l’autentica insopprimibile capacità di una parte dell’umanità di rifiutare la realtà che gli altri vogliono imporgli.
Ma si sa, un suicidio vale meno, se è uno schiaffo in faccia la Civiltà.
Leggi anche gli altri articoli delle rubriche #OltreLaCiviltà e #MorireDiCiviltà.
Grazie per questo articolo.
Il mio cuore è con i Guaranì.
La causa di questi tristi suicidi siamo noi, la nostra civiltà.
Ho visto “la terra degli uomini rossi” e “Mission”.
Non riesco a giustificare in alcun modo la nostra civiltà che distrugge i popoli tribali.
Grazie ancora per i tuoi commenti Gianni, anche noi siamo dalla parte dei Guaranì e di tutti i popoli tribali. Per contribuire alla loro tutela puoi contattare Survival International, associazione che difende la causa dei popoli indigeni e tribali.
Sono socio di Survival da tanti anni.
Amo i popoli tribali.