di Francesco Merlino
Mamma, papà, da grande voglio fare il pittore.
Non puoi fare il pittore, perché non si mangia.
Ti diplomerai al liceo, ti iscriverai all’università, un’università utile, che sia economia, giurisprudenza o medicina, e una volta laureato imparerai il tedesco e farai uno stage all’estero.
Così e solo così mangerai, questa è la realtà.
E la realtà non si discute.
Quante probabilità ci sono di incontrare, vivo e in buona salute, Elvis?
Duemilacinquecento ad uno o almeno così dicono i bookmakers inglesi, storici tessitori di improbabili trame alle quali affidare le nostre, ancor più improbabili, suggestioni. Questo vuol dire che se ho uno sterlina e la convinzione che l’impossibile possa diventare possibile posso scommettere che un giorno, non lontano da oggi, incontrerò Elvis Presley ed avrò indietro, oltre allo stupore, duemilacinquecento sterline.
Prendete questo numero, esiguo per quanto grande in rapporto all’impossibilità dell’evento che descrive, e moltiplicatelo per due. Otterrete un’impossibilità ancora più grande.
Il risultato, cinquemila ad uno, descriveva per i bookmakers inglesi la probabilità che aveva il Leicester City FC di vincere la Premier League, un evento due volte più improbabile di incontrare per caso Elvis vivo e vegeto.
Ma infondo chi mai avrebbe potuto prevedere una cosa del genere?
Il calcio è un paradigma della vita e, come nella vita, vincono sempre gli stessi e perdono sempre i soliti.
Trionfa chi ha storia e tradizione. È un gioco per potenti il calcio, un gioco marcio fatto di congiuntivi sbagliati, sputi per terra, petrolieri che pagano le Ferrari a nuovi Trimalcioni divenuti ricchi per inseguire una palla che rotola; stupidi, come criceti nella ruota.
Il Leicester FC è una modesta società di una piccola città che non ha mai vinto nulla, costretta a faticare per restare a galla tra le grandi, come i bambini che hanno imparato da poco a galleggiare. Il Leicester non ha storia, non ha i soldi, non può vincere. La realtà non si discute.
Ma adesso che cosa rimane della statistica?
La statistica è un gioco, si annulla quando cede il passo alla realtà. E proprio la realtà che la statistica aveva descritto con quasi assoluta certezza ha dovuto cedere il passo ad un’altra verità, che prima era descritta solamente dai sogni.
A Leicester i calciatori non sono eroi, ma sono uomini. Non sono straricchi e non corrono a perdifiato per il campo per inseguire un pallone, ma per fuggire da qualcosa. È nella natura del pallone rotolare e non smetterà mai di scappare. I sogni invece sono diversi: loro sì scappano via e partono da più lontano di te, ma si fermano una volta che li raggiungi e rimangono immobili a far parte della storia.
Per questo i calciatori del Leicester correvano molto più degli altri, perché sapevano che la loro corsa sarebbe terminata, prima o poi, ed era inutile conservare il fiato per l’anno successivo, per continuare a scapicollarsi dietro al pallone che schizza veloce lungo l’out di sinistra, per un’altra Ferrari, un’altra boccia di champagne. Bastava correre fino a raggiungere il sogno, poi fermarsi.
Gli eroi sono solo frutto delle nostre misere vite, la forma che prende il nostro bisogno di inventare storie da applicare alla realtà per renderla indimenticabile, importante, perché valga la pena viverla.
Spesso gli eroi rimangono solo immagini della fantasia, spesso svaniscono dietro la statistica che quasi mai concede un’eccezione.
Anche gli eroi per antonomasia, quelli di Omero, probabilmente non erano altro che storie.
Ma la statistica a volte sottovaluta l’importanza delle storie che noi uomini ci raccontiamo per provare a stare meglio. La statistica non tiene conto di chi decide di correre più degli altri, di saltare più degli altri, di sudare più degli altri.
E chiamiamolo “un caso”, chiamiamola “fortuna”, i giocatori del Leicester oggi hanno fatto prendere forma definita a quell’unico caso su cinquemila che descriveva la suggestione dell’impossibilità, rimarcando la differenza che c’è tra essere solo eroi ed essere uomini e lasciandoci in bocca il dolce sapore della sacralità del calcio senza nemmeno dover scomodare citazioni di Pasolini, Saba o Hobsbawn.
E ora che Jamie Vardy, ventotto anni, attaccante, ex galeotto che fino a due anni fa lavorava in una fabbrica di protesi mediche, ha vinto la Premier League, chi avrà il coraggio di dire a suo figlio che non può fare il pittore?
Ora che non mi stupirei a sentire Elvis esibirsi sotto falso nome.
Ora che la realtà si discute e come.