di Matteo Minelli
Impiccheranno Geordie con una corda d’oro, è un privilegio raro, rubò sei cervi dal parco del re vendendoli per denaro.
Così recitava la strofa di una stupenda canzone dell’indimenticabile Fabrizio De Andrè in cui si narra la triste vicenda di un giovanissimo suddito, non ha vent’anni ancora, punito con la morte per aver praticato la caccia illegale nella regia riserva. Evidentemente il povero Geordie non conosceva la differenza tra bracconaggio e caccia sportiva. Non sapeva che se sua maestà, con una muta di mastini ringhianti e uno stormo di cavalieri al seguito, abbatteva mandrie di poveri cervi per il solo gusto di raccontare a qualche damigella vezzosa le sue mirabili gesta, si trattava di regolare sterminio; se invece era un morto di fame qualunque a prendere sei cervi dal parco del re allora ci si trovava di fronte ad un conclamato caso di bracconaggio e furto, punibile con la pena capitale. Come si suol dire la legge non ammette ignoranza e così a Geordie toccò la forca e al sovrano un bello stinco di cervo arrostito.
Episodi come questo, di sapore medievale, non hanno grande rilevanza nelle cronache dettagliate dei dotti dell’epoca, ma riempiono le ballate di mezza Europa. Perché c’è sempre qualche povero Cristo che finisce a penzoloni per non aver compreso la differenza tra essere un cacciatore e un bracconiere. Il fatto è che la vicenda si ripete ancora oggi, e che questa volta i Geordie di turno sono gli uomini delle tribù, mentre i panni del buon sovrano sono vestiti da ardimentosi figli della Civiltà che, armati più di Rambo in Vietnam, vanno nelle riserve ad abbattere felini e ungulati da mostrare come trofei ai loro vicini di loft.
È questa la triste storia della cacciata di molti popoli indigeni dalle proprie terre in nome della “conservazione ambientale”. Questi custodi dei luoghi in cui la biodiversità risulta essere tra le più alte di tutto il Pianeta, hanno imparato a convivere, rispettare e proteggere gli ecosistemi che abitano, hanno regolato le propria esistenza armonizzandola a quella delle forme di vita circostanti, visto che è da esse, e solo da esse, che dipende il loro sostentamento e la loro sopravvivenza. Eppure i Batwa dell’Uganda, i Baka del Camerun, gli Yanomani del Brasile, i Boscimani dal Khalari e molti altri popoli sono cacciati dalle proprie terre ancestrali e perseguitati in nome della tutela del territorio. Oggi circa il 13% della terra emersa è destinata a parchi naturali protetti. Milioni di individui, sì avete compreso bene, milioni di individui, sono stati espulsi da questi luoghi o vivono sotto la minaccia perenne di diaspora; la maggior parte di loro appartiene a popoli indigeni e tribali. Questo esodo, che minimizzando potremmo definire biblico, è stato e continua ad essere incentivato da numerose organizzazioni ambientaliste, che utilizzano la tesi della salvaguardia degli habitat e delle specie a rischio per espellere gli unici autentici guardiani della Terra.
Bisognerebbe infatti domandarsi come mai uomini e donne appartenenti alla stessa Civiltà che in due millenni ha estinto migliaia di specie animali e vegetali, distrutto interi ecosistemi, riempito di rifiuti tossici il pianeta, demolito e devastato ovunque sulla faccia della globo, abbiano l’ardire di insegnare la tutela ambientale a chi ha imparato, nei millenni, a proteggere, sorvegliare e letteralmente adorare il territorio in cui vive. Eppure chi potrebbe consigliarci e dare l’esempio viene zittito e oppresso, mentre chi dovrebbe domandare scusa impone la propria visione del mondo.
Ed è in virtù di questa distopica situazione che mentre i popoli tribali vengono cacciati dalla propria terra e le autorità governative impediscono loro di raccogliere e cacciare nelle zone trasformate in parchi e riserve, si organizzano safari e grandi cacce sportive per i ricchi signori di tutto il pianeta. Ci aspetteremmo che le stesse organizzazioni che sostengono la necessità di impedire alle tribù di cacciare per sopravvivere inorridiscano e alzino barricate contro questi cercatori di trofei animali. E invece no.
Il WWF, che vanta tra i suoi ex presidenti, personaggi del calibro di Juan Carlos, già re di Spagna, e Filippo, duca di Edimburgo, noti bracconieri, pardon cacciatori sportivi, ha definito la caccia di trofei “uno strumento legittimo” e un “incentivo per la conservazione”. Addirittura l’International Union for the Conservation of Nature (IUNC), la più grande organizzazione ambientalista al mondo, responsabile della compilazione della lista rossa delle specie a rischio, sostiene che “la caccia di trofei è un pilastro fondamentale nell’approccio alla conservazione”.
La realtà è che la conservazione e la tutela ambientale non sono affatto le cause reali per cui i popoli indigeni vengono cacciati dalle proprie terre. Le autorità governative, supportate da questi monarco-ecologisti, hanno trasformato in riserve e parchi intere regioni per sfruttarne meglio le risorse. E la cacciata dei popoli tribali rappresenta la distruzione dell’ultimo ostacolo che si frappone tra le lobby economiche, politiche e ambientaliste e le ricchezze del territorio. È questo ad esempio il caso dei Boscimani espulsi dalla Central Kalahari Game Riserve nel 2002, parco in cui di recente è stato estratto il secondo diamante più grande del mondo.
Non sono di certo la caccia e la raccolta praticate a mero scopo di sopravvivenza dai popoli indigeni e tribali a determinare la sesta di estinzione di massa che ormai da anni, nel silenzio totale, si abbatte su migliaia di forme di vita su questo pianeta. È la nostra Civiltà, con i suoi mantra del consumo esasperato, della crescita vuota, dello sviluppo insostenibile, della produttività inutile ad essere quel gigante della canzone dei Rio, che calpesta l’erba, soffoca l’aria e all’acqua cambia colore.
Un gigante che i Geordie di tutto il mondo devono iniziare ad abbattere.
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