di Alessandro Albana
Questa mattina piazza Tiananmen, a Pechino, straripava di cinesi pronti a rendere il loro omaggio a Mao Zedong, nel giorno del suo 123esimo compleanno. Il mausoleo che custodisce la salma del grande timoniere, solitamente chiuso di lunedì, è rimasto aperto per l’occasione, persino oltre il consueto orario di accesso del pubblico.
Le autorità, nazionali e della capitale, hanno disposto stringenti misure di sicurezza che hanno rallentato il flusso di persone dirette al mausoleo più di quanto non accada negli altri giorni dell’anno. All’interno dell’edificio, corone di fiori e pacate manifestazioni di devozione convincono della necessità di comprendere la centralità di Mao per districare le contraddizioni più o meno apparenti di un Paese che ha fatto della stabilità il suo carattere fondamentale, senza però rinnegare i cambiamenti in atto.
Cosa Mao rappresenti per la società cinese resta ancora complesso da decifrare con chiarezza. Il grande timoniere rimane però una figura la cui influenza si estende oltre le generazioni e la sua eredità politica si conferma un elemento con cui le leadership che si sono succedute alla guida del Partito Comunista – quindi del Paese – hanno dovuto fare i conti in quanto cuore ancora pulsante della struttura portante del potere politico cinese.
Se è vero che, in senso stretto, “non tutti i cinesi sono maoisti”, e se da Deng Xiaoping a Xi Jinping, passando per Jiang Zemin e Hu Jintao, il gruppo dirigente di partito e macchina di potere ha manifestato rapporti dialettici non sempre completamente sovrapponibili rispetto all’eredità politica del fondatore della Repubblica Popolare, Mao rimane l’elemento cardinale di tanti e troppo importanti aspetti della contemporaneità cinese.
Troppo forte la tentazione di dire che Mao è tutto. Non tanto la connotazione politica, quanto piuttosto il costituire atto fondativo della modernità cinese, hanno fatto di Mao e del suo lascito un elemento di confronto pubblico costante e imprescindibile, sviluppatosi in un rapporto dialettico permanente per la dimensione pubblica cinese. A colpire non è l’apertura di spazi di dibattito sull’uomo che ha guidato la Cina per quasi trent’anni, ma il manifestarsi di questo rapporto come necessità della quale è impossibile fare a meno.
Sarebbe a questo punto facile obiettare che la questione non rappresenti una novità. È successo con tutte le grandi figure rivoluzionarie affermatesi come personalità straordinarie e dallo straordinario potere. È successo nell’Unione Sovietica post-stalinista e in molti altri contesti, in tempi e latitudini molto diversi.
Quello che fa di Mao un personaggio unico e della sua eredità complessiva un elemento ancora più straordinario è il fatto che questo “essere tutto”, questo sintetizzare il bene il male senza apparente soluzione di continuità né discrasie di logica, si è innescato come processo dialettico già quando il grande timoniere era in vita. Lo spiegò bene Fidel Castro, secondo cui Mao aveva distrutto con i piedi quello che aveva costruito con le mani.
Il grande spartiacque è rappresentato da quella Rivoluzione Culturale lanciata ma poi in qualche modo sfuggita dal controllo dello stesso Mao. A 50 anni dal lancio di quella nuova, dirimente fase della storia cinese, il suo strascico è tutt’altro che esaurito e non è certo questo il contesto migliore per affrontarlo. È importante però sottolineare che è stato in quel preciso momento che la necessità di una rivoluzione permanente ha trovato il suo pieno e più maturo compimento.
Quali che siano i giudizi su quel passaggio drammatico, l’elemento che si afferma con una forza dirompente è esattamente l’innesco di un processo di continuo cambiamento che si agisce all’interno di una dinamica che è, di per sé, il cambiamento più drastico, radicale e repentino: quello della rivoluzione. Con il suo farsi permanente e la necessità di bombardare il quartier generale, la rivoluzione si è spogliata del suo carattere temporale e, in particolare, del suo assumersi come evento inaugurante di una nuova stabilità. Con Mao ha preso così forma una rivoluzione della rivoluzione che ha fatto del grande timoniere il tutto fondamentale. Tutto e il contrario di tutto, ma pur sempre soggetto fondativo, per la storia a venire. Mao è tutto.
Troppo facile attenersi a un comodo manicheismo per giudicare gli anni in cui Mao è stato protagonista di punta della storia cinese. Anni che, è bene ricordare iniziano prima della fondazione della Repubblica Popolare, nel 1949, e non si esauriscono nel 1976, quando morì a causa di una malattia. A spiegarlo bene è un passo delle parole di Yao Guoxiang, riportate su Foreign Affairs da Yifu Dong e di cui ha già scritto Gabriele Battaglia su China Files e Orizzonte Cina. Yao, nonno di Yifu Dong, racconta degli anni difficili della rivoluzione culturale, delle botte prese e delle umiliazioni subite per mano delle guardie rosse, ma non mette in discussione quanto fatto da Mao. “La rivoluzione culturale – scrive Yifu Dong – è stata solo un episodio di una lunga serie di tragedie nazionali che nonno Yao ha vissuto personalmente. Per la generazione di mio nonno, gli ideali comunisti hanno offerto un’alternativa convincente al buio e alla disperazione di quanto vissuto prima”.
Sarebbe a questo punto il caso di ripercorrere un paio di tappe della recente storia cinese per ricordarsi come Mao abbia incarnato il sogno di una Cina sottratta a decenni di penetrazione vorace da parte delle potenze straniere, tornata grande e influente dopo un secolo di umiliazioni e la grande instabilità del passaggio repubblicano. Se questo non cancella le contraddizioni né i drammi personali e collettivi, resta comunque evidente come non si tratti di retorica. Nel Paese che è tornato a essere protagonista di primo piano sotto tutti i profili, questa consapevolezza, che assume i caratteri di una ritrovata identità, è ben più di un dato culturale.
Mentre i social media cinesi ripropongono le immagini delle celebrazioni da diverse province cinesi, Mao continua a riposare in piazza Tiananmen, al centro del cuore politico della Repubblica Popolare che lui stesso ha fondato. È il luogo in cui, non solo simbolicamente, la leadership cinese risiede e prende le sue decisioni, uno spazio pubblico e politico centrale per le sorti del Paese, dal 1949 a oggi, passando per le sollevazioni del 1989. Il luogo più adatto, l’unico possibile, per il sonno definitivo (ma vigile) dell’uomo senza cui è impossibile capire la Cina di oggi.