DAVANTI AL DOLORE DEGLI ALTRI
INTERVISTA A GABRIELE MICALIZZI
“Vogliamo che il fotografo sia una spia nella casa dell’amore e della morte, e che i suoi soggetti siano inconsapevoli della macchina fotografica, presi alla sprovvista.
La cosa strana non è il fatto che molte delle fotografie più emblematiche del passato, incluse alcune delle più note immagini della seconda guerra mondiale, siano una montatura. La cosa strana è che siamo sorpresi di scoprirlo e ne restiamo sempre delusi.”
Leggendo “Davanti al dolore degli altri” di Susan Sontag ci troviamo investiti da una serie di domande e riflessioni etiche sulla fotografia: ne parliamo con Gabriele Micalizzi, fotografo e fotoreporter di fama internazionale, che davanti al dolore degli altri si è trovato tante volte e ne ha fotografato il suo racconto di verità, che certamente porta con sé una riconoscibile ed affascinante cifra stilistica.
Soltanto a partire dalla guerra del Vietnam possiamo essere praticamente sicuri che nessuna delle fotografie più note sia il risultato di una montatura. E ciò è essenziale nell’autorevolezza morale di quelle immagini. Quanta verità c’è nelle tue foto, e quanto per te questo principio di verità ha un peso?
Tutto ciò che scegli di raccontare è chiaramente una reinterpretazione di quello che vedi, il concetto di verità, per me, sta nel saper riportare anche le situazione scomode. La pornografia di guerra non esiste più, la televisione ci ha sbattuto in faccia tutto, ecco perché ormai siamo anestetizzati, e scuotere l’opinione pubblica non è così semplice, seppur accade ancora: basti pensare alla foto, diventata simbolo, del piccolo Aylan Kurdi senza vita, a faccia in giù, in riva al mare. Qualsiasi madre, anzi qualsiasi essere umano, non può rimanere impassibile davanti a quell’immagine scattata da Nilufer Demir. Ecco, in questo caso uno scatto ha un ruolo determinante, fa da cassa di risonanza, contribuisce nel far arrivare quel tema al tavolo del parlamento europeo.
L’avvento della televisione è sicuramente stato un cambiamento epocale: il fotoreporter non è più solo e deve competere con i media, questo ha radicalmente cambiato il suo ruolo, per te cosa significa oggi essere un fotoreporter?
Il grande lavoro del fotoreporter è prima dello scatto, è arrivare in quei luoghi.
E’ un lavoro rischioso, imprevedibile. Ti immagini di voler raccontare qualcosa, poi arrivi lì e non ti puoi neanche fisicamente avvicinare, viceversa può accadere il contrario: al Cairo per esempio, sono arrivato prima della rivoluzione, mi sentivo che sarebbe successo qualcosa.
Impari ad avere una lettura geopolitica del mondo.
Poi c’è il capire la situazione, il fotogiornalismo non è lo scatto del “bang-bang”, come lo chiamiamo noi, ma è il parlare della condizione umana: penso ad uno scatto di Andy Rocchelli che ritrae dei bambini in un bunker, pieno di conserve di cibo, scavato per evitare i mortai, ecco questa foto dice molto di più sulla guerra di una sparatoria.
Nel saggio viene citato Leonardo Da Vinci che in uno dei suoi scritti suggeriva che lo sguardo dell’artista deve essere, letteralmente spietato. “L’immagine dovrebbe atterrire, e in quella terribilità si nasconde una provocatoria bellezza” Domanda da un milione di dollari: dov’è per te la bellezza, e che significato ha questa parola nelle tue fotografie?
La guerra è fotogenica, fa strano dirlo, ma la bellezza si può trovare ovunque, non sta a me dirlo.
Questa domanda mi fa pensare ad Alex Majoli, che per me è stato un grande maestro.
La bellezza dei suoi scatti, sta nella dignità restituita al soggetto ritratto.
In una delle sue foto che più mi sono rimaste impresse, un bambino ha appena subito l’amputazione di una gamba, non la vediamo da vicino, eppure tocchiamo con mano il suo dolore, comprendiamo l’accaduto dalle goccioline di sangue sulle lenzuola. Se penso alle situazioni da me più fotografate sono i funerali- mai avrei pensato di fotografare dei funerali- dei momenti così intimi, eppure erano i famigliari stessi a chiedermi di farlo. Volevano che fotografassi il dolore di quella perdita, che le dessi valore, dignità.
La ricerca di una bellezza, che sposta l’attenzione dalla gravità del soggetto rappresentato, compromette il carattere documentario dell’immagine?
La ricerca è individuale, non si può prescindere dal filtro del nostro sguardo, da una scelta. La differenza, tra una foto che nasce con finalità artistiche ed un fotoreportage è che nel foto giornalismo il contenuto c’è sempre.
Per chiudere questa intervista, voglio citare uno dei più famosi e controversi fotoreporter che la Sontag trascina al tavolo degli imputati: Sabeastiao Salgado, con la sua celebrissima raccolta “Migrazioni” che raggruppa, sotto uno stesso titolo, un campionario di miserie d’ordine e natura diversi. Salgado può forse indurci a pensare che dovremmo preoccuparci di più, ma d’altro canto ci invita anche a credere che le sofferenze rappresentate sono troppo grandi. Ecco che questa compassione diventa allora “astratta”, portata anch’essa in una dimensione strettamente artistica. Voglio chiedere quindi a te Gabriele, cosa vorresti muovere in chi osserva i tuoi scatti?
Mi capita spesso di far vedere i miei scatti ai bambini o, come dico sempre, “a mia zia” – perché?
Mi interessa che arrivi a loro, non solo agli addetti ai lavori.
Noi vogliamo lavorare per la storia, capiamo il linguaggio che si evolve, ma non voglio dimenticare l’empatia, ecco cosa vorrei smuovere.
Per farlo, bisogna trovare un equilibrio tra quello che dobbiamo fare e quello che possiamo fare.
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Interessante! Interessantissima! Domande intelligenti che mi aiutano a comprendere ed ammirare il lavoro del fotoreporter dando profondità e senso diverso dal consueto stupore inorridito alle foto che sono testimonianza dell orrore umano. Leggendo le considerazioni di Gabriele Micalizzi, ora ho una nuova prospettiva di osservazione. Grazie 👏