di Francesco Merlino
Sono certo che aprirai. Prima o poi.
Ormai è da più di mezz’ora che busso alla tua porta ma forse, giustamente, hai sbirciato dallo spioncino e non ti fidi di un ragazzo ubriaco che barcollante si aggrappa al muro e continua a chiedere di entrare. Cosa vorrà? Perché è qui e perché persevera? Coi tempi che corrono …
O forse non ci sei, non abiti più qui.
Eppure la targa di marmo sopra alla porta parla chiaro.
“Casa natale di SANDRO PENNA, poeta.
Io vivere vorrei addormentato
entro il dolce rumore della vita.”
Ma se davvero non abitassi più qui? Dove sei andato?
Sono arrivato qui per sbaglio, perché non c’è altro modo per arrivarci. Ti incammini per Corso Vannucci, fai tappa allo Snack Bar, prosegui fino alla Fontana, poi fino al Turreno, un’ultima fermata al Curdo e quando finalmente il naufragar ti è dolce in questo whisky sour, abbandoni il flusso di gente e ti defili, solo (e non è una condizione trascurabile), in Piazza Piccinino. Dopo puoi solamente andare dove non andresti mai, tra i vicoli che formano lo scheletro nascosto di Porta Sole. E quando meno te lo aspetti sei arrivato: la piazzetta, il portone. È impossibile spiegare con più precisione, è un posto che puoi trovare solo perdendoti.
Sebbene sia il punto più alto della città, onde Perugia sente freddo e caldo per citare Dante, sembra di stare in una scatola dove né il vento né i raggi del sole, né i Baci Perugina né le note di jazz possono arrivare, ma solo la pioggia, che sembra essere parte integrante del paesaggio, necessaria ed imprescindibile.
Pochi metri più avanti, separati e nascosti dal dedalo dei vicoli, spesso i turisti più informati si ritrovano alla cappella di San Severo per ammirare l’affresco di Raffaello, pochi metri più indietro i ragazzi vociano, bevono e ridono delle battute oscene di qualcuno giocando ai grandi. Qui, però, quasi per miracolo, non passa mai nessuno. Quando sono arrivato c’era solo una turista, forse tedesca (sandali e calzini), di certo smarrita, che è scappata via appena mi ha visto, come avesse percepito un mio desiderio di intimità, o forse perché il buio, il bicchiere di plastica in mano, il mio incedere ciondolante le hanno fatto fraintendere le miei intenzioni, e chissà quante ne avrà lette e sentite su questa città… non si può star mai tranquilli, di giorno e di Knox.
Così sono rimasto solo, davanti alla tua porta, in questo luogo appartato, così adatto a te, che sei stato sempre nascosto, riservato, in disparte, diverso per esigenza interiore e non per avanguardia e, come dicesti tu , “guai a chi è diverso, essendo egli comune”.
So che a volte camminavi per le strade della città a tarda ora, con il bavaro alto del cappotto ed il cappello in testa, per sfuggire anche alle misere conseguenze della tua timida notorietà. Ti sentivi inadatto all’apparire, allo spiccare, al rivoltarsi e proprio così sei apparso spiccare e rivoltarti a tutte le bandiere ed a tutte le etichette. Prima di essere fascista o comunista, omo o eterosessuale, persino neutrale, eri e ti sentivi un uomo, portandoti dietro il peso che comporta il riconoscimento della propria condizione di essere umano quando non si nasconde dietro nulla: la sconfitta.
Personalmente non trovo nulla più poetico e più bello della sconfitta.
Un giorno mi hanno raccontato una storia sul poeta Fernando Pessoa. Mi hanno detto che avrebbe passato la vita ricurvo su una scrivania, lavorando come contabile e come traduttore per necessità, per sbarcare il lunario. Intanto, negli sprazzi di tempo in cui poteva permettersi di essere se stesso, scriveva poesie e poi le nascondeva in un baule. Beveva, beveva molto, perché come tutti gli artisti la sua sensibilità arrivava a sentire cose troppo pesanti da sopportare, tra tutte la sottrazione al suo esser poeta. Un giorno è morto, cirrosi epatica, e solo allora quel baule è stato aperto. Così tutto il mondo ha saputo che Fernando Pessoa era un poeta.
Non ho mai voluto sapere se questa storia fosse vera, e per favore non ditemelo, però è bellissima.
Non esiste una poesia più sublime di quella che non ha notorietà.
La tua poesia era semplice in un tempo in cui non c’era nulla di più semplice dell’ardito. La tua voce acuta, stridula, quasi ridicola, non aveva nulla a che fare con la voce di chi sa farsi rispettare. Su di te ho letto una volta che hai “tranquillamente rifiutato la realtà ideologica, morale, politica, sociale, intellettuale del mondo in cui viviamo” e, aggiungo io, l’hai fatto in silenzio. Appartato, raccolto in te stesso come questa casa incastonata nel muro, in questa piazzetta, dentro e fuori la città.
È vero che la tua prima poesia l’hai scritta al buio pesto, tastando alla cieca la scrivania con le mani per raggiungere con urgenza una matita ed un pezzo di carta o di giornale, solo perché in quel momento, in quel preciso momento, avevi sentito l’esigenza di scriverla?
Forse anche tu avvertivi il bisogno di esplodere, di scappare dai compiti di ragioneria da portare pronti per il giorno dopo all’Istituto Vittorio Emanuele II, dal doverti pettinare sempre coi capelli all’indietro, dal non poter aprire le Illuminations di Rimbaud che tenevi chiuso nel comodino.
Perché non rispondi?
Forse stai dormendo, o meglio stai vivendo addormentato come dice la targa. Che poi qui è proprio un bel posto per vivere addormentati, qui che la vita fa solo rumori dolci o non ne fa affatto.
Ed a maggior ragione ti infastidisce ora il mio vigoroso bussare alla tua porta e, piccato, non vieni ad aprire.
Sì, deve essere così.
Ma io non voglio infastidirti, voglio solo che tu mi rassereni e sapere che ci sei, che ci sei ancora.
Mi chiedo quante persone nella mia città sappiano che tu sei qui. Eppure sono stato a Recanati e sembrava che anche i sassi sapessero della casa di Leopardi, anzi, che non ci fosse neppure il bisogno di chiedere, bastava camminare e tutte le strade ti avrebbero portato lì, più che a Roma.
Invece per arrivare qui, in via Mattioli numero 17, devi perderti, devi fare quello che altrimenti non faresti mai, devi essere solo e forse sbronzo e deve piovere.
Dovrei provare a tornare, con tanta gente, turisti con le macchine fotografiche al collo e nella mano sinistra una copia in russo, cinese, tedesco di Un po’ di febbre.
Forse questo posto andrebbe leopardizzato, reso mitico, iconico, pop.
Sto straparlando.
Devo essere sincero, un po’ mi stai deludendo. Qui forse non c’è nessuno per il semplice motivo che a nessuno importa di te. Un tizio buffo, senza partito e senza patria, con la voce strana, omosessuale ma non gay, poeta ma senza una verità, né un soldo, in tasca. Nessuno ti chiederebbe un autografo o una foto, e così te ne rimani qui, dentro una casa nascosta in un luogo nascosto di una città nascosta, fatta eccezione per due o tre settimane all’anno.
Forse questo posto nemmeno esiste.
Scusa.
È che vorrei tanto sapere che ci sei. Vieni ad aprire.
Voglio dire a tutti quanti che abiti ancora qui!
Strattonare la gente per strada e gridare “Ehi non sai chi ho appena visto…”.
Ma tu niente ed io continuo ad aspettare, appoggiato al muro ed appeso alle mie speranze, che vanno scemando insieme all’effetto dell’alcol ed alla sua consequenziale spudoratezza che mi fa continuare a battere i pugni sulla porta.
Aspetta, ho capito.
Che stupido…
Non te ne sei andato, siamo noi che non abbiamo più saputo cercarti.
E proprio perché non apri so che ci sei, che te ne stai lì, dietro la finestra a guardarmi, scostando di poco la tendina, col bavaro alto ed il cappello in testa.
Tornerò a trovarti Sandro Penna, poeta appartato (semplice).
l’anima di Sandro Penna (quel pò di anima che a Perugia ha lasciato) è a piazzetta Vermiglioli, 5. Egli scrisse di questa casa, della sua terrazza tra le rondini, qui visse anni di grandi dolore per l’allontanamento della madre, che nel ’18 lo lascia solo col padre ed il fratello, qui i primi turbamenti adolescenziali e sessuali. La casa non è più la stessa, ora cemento e auto nell’autofficina a piano terra; tuttavia qui, se bussi, forse Sandro ti aprirà, in silenzio
Complimenti !
Nel mio ufficio ho appesa la foto di Pessoa e la sua frase”il poeta e’ un fingitore e finge così completamente che giunge a fingere che è’ dolore il dolore che davvero sente”…molti la guardano la leggono e non la capiscono..poi abbandonano la sfida è tornano a piano terra per parlare con me…Ascoltare e scegliere chi ascoltare fa la differenza nella vita. Avanti così senza indugio. Scegli con chi vivere. G
Rileggo il tuo articolo e mi rinnova la speranza di poter un giorno, come lui, afferrare una matita nel sonno. Non ha importanza, come giustamente metti in evidenza, che l’arte venga scoperta, perchè nel momento in cui nasce soddisfa e completa lo scopo della sua stessa nascita: dissetare l’artista.
Bello, davvero bello, complimenti.
Come è forte il rumore dell’alba!
Fatto di cose più che di persone.
Lo precede talvolta un fischio breve,
una voce che lieta sfida il giorno.
Ma poi nella città tutto è sommerso.
E la mia stella è quella stella scialba
mia lenta morte senza disperazione.
Complimenti per l’articolo Francesco, mi hai fatto sentire a casa e di fronte a quel portone troppo spesso dimenticato. Mi trovo in Albania ad insegnare italiano a studenti stranieri e proprio due giorni fa, in occasione del 39esimo anniversario della sua morte, ho preparato una lezione su Sandro Penna. Grazie ancora Emergenze e onore alla memoria dei grandi perugini, spesso non tali perché ombrosi… Vi lascio con una lirica
Un giorno che alla terra abbandonavo
Un giorno che alla terra abbandonavo ogni calmo desio – e rispondeva calmo
il vento che dal mare risaliva
a noi del verde colle –
io nel sole un’umana figura
riguardavo dormire. Indi m’accorsi
che un vero iddio guardava quella forma.
Mi ritrassi in silenzio. Spaventato
fui nel dolce silenzio, azzurro mare.
Un saluto speciale a Paolo M.
Diego F.