di Pollo Scatenato
It’s the wall I hate
It’s the wall I hate
È forse il triste ritornello che sta cantando Blu in questi giorni, ispirandosi ai Sonic Youth. Il rullo grigio – ora a Bologna come prima a Berlino – passa sulle sue opere come un’eutanasia artistica, assistita dagli attivisti bolognesi di XM24 e Crash che lo hanno aiutato in questa sua forma di protesta nei confronti del potere istituito italiano: cancellare le proprie opere perché non vengano utilizzate impropriamente.
Se ci si può dare la morte in ogni momento, perché questo non dovrebbe valere per la propria arte? Se gli stralci di diritto giuridico che regolano il mondo dell’arte non costituiscono una difesa sufficiente, allora l’idea primigenia di qualsiasi forma artistica può vedere stravolte, dallo stesso circuito di diffusione, filosofie e significati.
La street art è stata forse l’elemento moderno a far maggiormente i conti con gli spettri di un potere che potremmo ancora definire fascista, per come deregolamenta, controlla, gestisce, induce alla modifica. Quanti libri, film, opere d’arte hanno incontrato la censura al punto da doversi piegare fino a stralciare i passi più incendiari del proprio messaggio?
Molti muri sono caduti fisicamente nel corso degli ultimi 30 anni, ma ogni giorno altri ne vengono eretti, più subdoli e conformi alle ansie democratiche, da quelle cariche istituzionali che attribuiscono una pericolosità intrinseca alla libertà di un messaggio.
11 dicembre 2014: Blu di fatto cancella, ricoprendoli di nero, i suoi due enormi murales “Brothers” e “Chain”, che a Berlino dal 2008 avevano contribuito a rendere la Cuvrystrasse il luogo simbolo per una piccola comunità autonoma di artisti e creativi e per i cui ambienti era stato deciso lo sgombero.
11 marzo 2016: l’altro ieri Blu lo fa di nuovo, nella sua Bologna, dove ha iniziato un percorso artistico che dura da 17 anni, rende inerti le sue opere in seguito alla mostra ideata da Fabio Roversi Monaco, dove sono esposti graffiti staccati dal loro contesto urbano (in alcuni casi senza autorizzazione dell’autore) e ricostruiti all’interno del museo a Palazzo Pepoli. Un gesto di protesta contro la “privatizzazione della street art”.
Perché blu, da colore primario in grado di predisporre le persone ad un’attenzione amplificata, può diventare nero – in una nemesi di quello che da sempre combatte – solo volontariamente.