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di Antonio Brizioli

 

Come sapete il legame di Emergenze con l’artista tedesco Joseph Beuys è forte, dal momento che proprio al piano meno uno di Palazzo della Penna, contenente le sei lavagne che egli ha lasciato a Perugia nel 1980, ha preso vita il nostro progetto, ha assunto la sua forma il nostro giornale, ha preso fiducia la nostra voglia di operare nella città. Il nostro logo, la leva creativa che solleva il cubo della comunità, porta le tracce di questo incontro, che abbiamo esplorato solo minimamente e che abbiamo intenzione di percorrere in modo sempre più estremo e approfondito.

Su tali premesse sarà facile intendere come la mostra “Pianeta Beuys” organizzata in occasione dell’annuale Todi Festival, abbia destato in me immediata curiosità, mista alla speranza che qualcuno avesse affrontato dignitosamente il rapporto con un artista che presso di noi (umbri) non trova la fortuna che meriterebbe. Inutile riaprire la polemica sulle lavagne di Palazzo Penna, che continuano a restare ai margini di ogni piano di riattivazione culturale della città di Perugia. Riattivazione di cui, intendiamoci, avrebbero tutte le caratteristiche per essere elemento generatore.

Così prendo la mia autovettura, carico a bordo me stesso e la mia macchina fotografica e mi appresto a raggiungere il luogo desiderato: la Sala del Capitano, affacciata su quella piazza del Popolo che non a torto viene spesso menzionata fra le più belle d’Italia. L’illusione di poter entrare in un luogo vivo e interattivo, come avrebbe voluto Beuys stesso, svanisce nel giro di pochi secondi. Uniche creature animate presenti in sala: il gentilissimo steward, di notevole eleganza, e un bambino probabilmente parcheggiato lì dai genitori per discutere in santa pace dell’imminente divorzio.

Due video (uno dei quali proprio quello della conferenza tenuta a Perugia il 3 aprile 1980), qualche foto d’autore dalla mostra Terrae Motus organizzata sempre nel 1980, a Napoli, quando il gallerista Lucio Amelio invitò Beuys insieme ad altri artisti internazionali ad intervenire sul tema del terremoto che aveva appena coinvolto il capoluogo partenopeo e il Vestito Terremoto, realizzato da Beuys proprio in quell’occasione stracciando in corrispondenza del cuore l’abito di Lucio Amelio. Non mi stupisce tanto la povertà di contenuti, perché si può fare una gran mostra anche a partire da un’unico pezzo esposto, da un’idea, da una parola. Ciò che mi colpisce è invece l’assenza di qualunque stimolo che permetta la lettura delle opere, l’inesistenza di un testo se non critico quanto meno esplicativo, l’assenza perfino delle didascalie in corrispondenza delle opere. Ho fatto l’esercizio di immaginarmi privo di qualunque conoscenza pregressa relativa a Beuys, di essere il fruitore medio che non sa neppure pronunciarlo: entro e vedo una sala vuota con un vestito tagliuzzato dentro una bacheca, qualche foto con iconografie strane (una sedia con la cera sopra, un uomo col cappello che sta accanto a una lavagna, un altro che gli somiglia -forse è ancora lui?- che mi sembra stia cucendo un animale, una stanza con strani mobili eccetera), due video che non riesco a seguire, quindi esco non prima di chiedere con un filo di speranza allo steward: “Scusi, c’è qualche materiale di approfondimento su questa mostra?” e sentirmi rispondere con il filo di imbarazzo di chi capisce perfettamente il problema: “No, mi spiace…”.

Non sono mai stato né mai sarò fautore delle mostre didattiche, dove giochini interattivi pensati per educare di fatto sviliscono la complessità dell’esposizione. Però non riesco più a comprendere l’utilità di mostre con un grado di fruibilità pari a zero, all’interno delle quali un artista come Beuys, che ha fatto del dialogo l’elemento cardine del suo percorso artistico, che terminava ogni intervento rispondendo con attenzione a decine di domande del pubblico, che chiedeva a chiunque di conquistare un ruolo attivo nel processo creativo e sociale, che camminava, che indicava, che cercava il contatto con gli altri attraverso ogni strategia possibile, che terminava il suo discorso alla Rocca Paolina di Perugia dicendo “Io ho una grande fiducia in ciascuno di voi”, sia di fatto ammutolito da organizzatori, curatori e amministratori che non hanno evidentemente percepito il senso dei segni lasciati dall’artista. Le sue opere, pensate come dispositivi in grado di reagire a contatto col fruitore, ricordi di una lotta da protrarre nei secoli, sono rese iconografie mute.

Ogni volta che ragiono sulle lavagne di Perugia penso che lui le abbia lasciate qua, vendendole a prezzo di favore, proprio perché decenni dopo vi fosse qualcuno in grado di riprendere il discorso teorico in esse contenuto, magari arricchendolo, magari attualizzandolo, magari pure contestandolo o superandolo, ma con il sacro rispetto che si deve a oggetti pensati per stare al centro di un dibattito. Dibattito che oggi si evita di proposito, vuoi per convenienza, vuoi per scarsa conoscenza, vuoi forse per entrambe. E l’Italia lascia che le opere della collezione “Difesa della natura” di Lucreazia De Domizio Durini, amica, studiosa e collezionista di Beuys, vengano donate alla Svizzera per mancanza di interesse. E Perugia conserva le sei lavagne di Beuys al meno uno di Palazzo Penna, che un turista può raggiungere con grande facilità soltanto venendo rapito, perché in attesa del riscatto verrebbe nascosto lì, dove nessuno può trovarlo… E l’Umbria non manifesta alcun riguardo per un artista che non faceva nulla per caso e che non per caso ha lasciato qui, in questa terra desolata alla periferia del discorso artistico, un segnale di estrema importanza, la chiave per ritrovare la vitalità del tessuto urbano attraverso bastoni che trasmettono energia al terreno, caldaie di vibrazione creativa, lepri che scavano una scia sotterranea per riemergere in superficie con rinato splendore…

Eppure niente di niente, lascio la sala con un filo di rammarico e la rinvigorita voglia (a questo punto necessità) di lavorare a partire da questo artista, il cui messaggio presenta tutt’oggi una stringente e inesplorata attualità. Prendo un gelatino lampone e kibana (interessante mix di kiwi e banana) e mi reco imbracciando il cono in uno di quei luoghi in cui io e mio fratello Antonio Cipriani siamo soliti raccoglierci. Il portale di San Fortunato con lo scherzo supremo di uno dei suoi scalpellini: un fraticello con tanto di tonsura sfodera la sua verga meravigliosa e la lascia arrampicarsi rotante su tutto il perimetro del portale fino a giungere in mezzo alle gambe della simpaticissima suora orante che per un attimo dimentica di esser fatta di pietra, si gira ammiccante verso di me e fa:

“Un’altra mostra su Beuys, un’altra inculata.”

Qualche foto dell’esperienza:

0 commenti su “Beuys a Todi: come ammutolire l’artista del dialogo

  1. Todi Festival / Sabato 28 agosto ore 19 circa, Palazzo del Capitano un convegno sulla politica europea…tra i relatori lo psichiatra Crepet… sono uscito di corsa imprecando…

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