Risulta difficile stabile con precisione quando sia nato il fumetto, genere artistico e letterario in cui linguaggio e grafica si mescolano magistralmente. Alcuni, forzando un po’ la mano, affermano esiste dagli albori della storia umana. Prova ne sarebbero le pitture rupestri dei nostri antenati. Altri ribattono che solo a partire dalla fine dell’ottocento si possa ritrovare l’archetipo del fumetto moderno. Fatto sta che solo dalla seconda metà del XIX secolo, muovendosi dagli USA, il fumetto si diffuse a macchia d’olio in tutti i paesi occidentali, divenendo un genere popolare e di massa.
Fu proprio la sua provenienza ad attirargli contro, almeno in un primo momento, l’avversione del fascismo. Il regime, noto per i suoi giri di valzer, tuttavia, passò in poco tempo dal disdegnare il fumetto, considerato come il prodotto peggiore dell’odiata plutocrazia americana, all’utilizzarlo come veicolo di propaganda verso le nuove generazioni. Il Balilla, giornalino per ragazzi, divenne così la casa di numerosi personaggi-eroi a fumetti che dovevano insegnare ai giovani italiani quei valori militareschi che la patria richiedeva loro. La stessa patria che poi li condusse, in nome di quei valori, a morire sui fronti di tutta Europa.
Con la fine della seconda guerra mondiale le sorti del fumetto in Italia non sembrarono migliorare. La Chiesa eresse un muro contro la diffusione di un genere che considerava immorale a anti-educativo. E seppur non mancarono voci discordanti e tentativi di produrre fumetti di ispirazione cattolica, questo sentimento non mutò per decenni. Anzi nelle parrocchie di tutta Italia, Topolino era bollato come “lettura sconveniente” e i classici disney venivano banditi perché contrari ai valori della famiglia. Tanto era forte l’ostilità di questo ambiente per i fumetti che i parlamentari DC Maria Federici e Giovan Battista Migliori, nel 1951, presentarono una proposta di legge con l’obiettivo di introdurre un controllo preventivo sulla diffusione dei fumetti.
A bloccare l’approvazione di questo progetto fu il PCI, preoccupato che si creasse un pericoloso precedente in tema di censura. In realtà i dirigenti comunisti, Nilde Iotti in testa, avevano un’opinione dei fumetti peggiore di quella dei loro colleghi d
emocristiani, visto che oltre ai contenuti avevano in odio la stessa forma di questa espressione artistica. Intervenendo alla Camera dei Deputati, la futura presidentessa dell’Assemblea, condannò il fumetto in quanto tale, sostenendo che anche quando non si ispirava a episodi di violenza, disabilitava il fanciullo alla logica e al ragionamento. Posizione che l’Unità amplificò quando, dopo un caso di cronaca nera in cui erano coinvolti due ragazzi, scrisse testualmente: “si tratta di tipico esempio di esaltazione mentale provocata dalla lettura di certi giornali e fumetti che in gran copia sono stati rinvenuti nelle abitazioni dei due giovani.”
Eppure nel partito c’erano state e c’erano ancora voci discordanti sulla linea da tenere verso i fumetti.
Per primo era stato Elio Vittorini a favorire su “Il Politecnico” la diffusione di alcune strisce di comics e vignette, provocando l’ira di Togliatti che in uno scambio epistolare, accusava la rivista diretta dal noto scrittore, di “esaltare le avanguardie e l’arte decadente, alla continua ricerca del nuovo”. La replica di Vittorini, che poco dopo sarebbe uscito dal PCI, fu puntuale e severa. “Il compito dell’intellettuale non è quello di suonare il piffero per la rivoluzione dando una veste poetica alla politica, ma quello di raccogliere tutti gli stimoli culturali che la società offre, per rinnovarla dal profondo”.
Nei primi anni cinquanta fu Gianni Rodari, supportato da Marisa Musu, ad erigersi ad alfiere della causa dei fumetti. Il primo aveva fondato un giornalino per i “Giovani Pionieri”, associazione scoutistica legata al PCI, in cui provò ad inserire il fumetto per diffondere tra i ragazzi la linea del partito. La seconda, partigiana e giornalista, sostenne a più riprese che era insensato attaccare la forma del fumetto poiché erano i contenuti a determinarne il ruolo sociale e culturale.
La polemica, se così si può definire, durò un battito di ciglia. Nilde Iotti su Rinascita riaffermò la linea ufficiale dicendo che il fumetto era “stato lanciato da Hearst, imperialista cinico e fascista” e rincarò la dose presentando una tesi che oggi faticheremmo a non definire surreale. “Decandenza, corruzione, delinquenza dei giovani e dilagare del fumetto sono dunque fatti collegati, ma non l’effetto e la causa, bensì come manifestazioni diverse di una realtà unica.” Rodari, sentendosi tirato in ballo rispose all’attacco, sostenendo che il fumetto aveva la forza di smarcarsi dai canoni statunitensi e conquistare una nuova autonomia espressiva utile alla diffusione di idee progressiste tra le masse. Tutto questo in una “Lettera al Direttore”, sempre su Rinascita, che amaramente si concludeva dicendo “Accanto ai libri, possono i fumetti essere uno strumento, anche secondario, in questa lotta oggi? Se non possono smettiamo di stamparli”. Togliatti, il direttore appunto, intervenne con durezza nella tenzone. Respinse al mittente l’idea che il fumetto fosse una nuova forma di cultura popolare e chiuse la porta in faccia al povero Rodari, investendolo con la sua sprezzante ironia.“Per conto nostro non metteremo a fumetti la storia del nostro partito o della rivoluzione”.
Eppure sul “Pionierie”, il giornale dei giovani scout della FGCI, lo scrittore non voleva proprio fare a meno dei fumetti. Nacque così una “via socialista al fumetto”, un ibridismo piuttosto scadente in cui una colonna di vignette si accompagnava ad una di testo. Esperimento a mala pena tollerato dalla dirigenza del partito. Rodari alla fine si arrese. Ma allora era impossibile per chiunque modificare la linea del PCI, che sulla scia delle posizione zdanoviane, sosteneva ciecamente un’unica forma di espressione artistica: il realismo socialista. Il fumetto non solo con la sua stilizzazione del disegno si avvicinava pericolosamente a forme d’arte astratte ma spesso aveva addirittura ambientazioni fantastiche che nell’ottica dei dirigenti comunisti spingevano le masse alla fuga dalla realtà, indebolendone la tempra e la vocazione rivoluzionaria.
Con il tempo però la forza ribelle del fumetto esplose senza freni. E molti grandi eroi nati tra le pagine di questa straordinaria forma d’arte contribuiscono ancora oggi a combattere, a loro modo, importanti battaglie sociali e culturali. Per non parlare di tutti quei fumetti che fanno dell’impegno civile la propria missione centrale.
Insomma la freccia azzurra è andata molto più lontano dello Sputnik.
Matteo Minelli
Leggi gli altri articoli di questo progetto su Emergenze e segui la nostra pagina Facebook Cannibali e Re e il nostro profilo Twitter.