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di Francesco Merlino

Si muore due volte.

La prima volta si muore quando l’anima lascia il corpo, la seconda quando muore l’ultima persona che ti conosce, e questa è la morte più dolorosa.

L’immortalità dunque esiste per chi consegna all’umanità una goccia di splendore, come diceva De Andrè riprendendo Alvaro Mutis, finendo di diritto nella Storia, impossibile da dimenticare.

Gli artisti aspirano a questo credo, pur nascondendolo dietro i loro caratteri difficili e capricciosi, puntano a lasciare una testimonianza del loro saper vivere diversamente, del loro capire cose della vita che gli altri non possono.

Bacosi Manlio era impiegato alle poste e negli anni quaranta forse non si timbrava il cartellino ma a lavorare si andava, anche perché era un privilegio raro. Aveva la classica faccia del perugino, stondata dalla buona cucina ed arrossata dal buon vino, a tratti richiusa su se stessa in un’espressione imbronciata, a tratti gonfia di risate scaturite da battute un po’ volgari. Ma, cosa più importante, Bacosi Manlio era un uomo molto coraggioso, per questo un giorno decise che non sarebbe più andato a lavoro alle poste, anche se era un privilegio raro; un giorno decise che sarebbe rimasto a casa a dipingere. Sì perché forse faceva l’impiegato alle poste ma Bacosi Manlio era un artista.

Ho sempre pensato che l’arte più grande scaturisca dalla sofferenza, ed ogni bravo artista deve sapersi creare la sua sofferenza con quanto la vita gli mette a disposizione. Alberto Moravia, solo dopo aver perso ogni genere di fiducia nelle persone, abbandonato per cinque anni in un letto d’ospedale, riuscì a scrivere Gli indifferenti. E così Bacosi solo dopo essersi sottratto alla sua natura, rinchiuso nella pulita perfezione di un ufficio pubblico, riuscì a ribellarsi. L’arte è una fuga e per fuggire bisogna prima essere rinchiusi.

E’ bravo Manlio, dipinge quadri che hanno la luce dentro, con uno stile informale naturale per quanto originale, probabilmente mai visto a Perugia. Ha la passione per la natura morta, di cui evolve il concetto, applicandolo ai soggetti che fluttuano nel vuoto colorato, o in geometrie semplici, per quanto elaborate, un po’ Rothko, un po’ Morandi. Nel 1947 alla prima mostra la gente, per una volta, sembra apprezzare la bravura di un artista. E poi quel nome così perfetto, che sembra un po’ uno pseudonimo sofisticato da artista spagnolo, un po’ un frutto troppo maturo che marcisce in terra. Bacosi. La gente compra, il nome gira, ci sono nuove mostre e nuovi acquirenti, a Perugia come nel resto del paese. La galleria Ghelfi di Verona, una delle più prestigiose in Italia, farà grandi affari con lui, ed ecco perché oggi, nel veronese, come nel vicentino e nel ferrarese, sopra al camino di ogni famiglia che si rispetti troverete un suo dipinto. Arriva la fama, e con la fama arrivano i soldi e con i sodi la felicità. E se arriva la felicità non sei più rinchiuso, e se non sei più rinchiuso rischi di non essere più un artista. Manlio Bacosi si ammala di denaro, ora non è più un uomo coraggioso. Un suo gallerista mi ha detto che si vedeva dall’espressione del suo volto che era malato, dalla goduria che gli usciva dai denti quando accoglieva in mano il frutto di una nuova vendita.

Dicono che i soldi causino una forte dipendenza, e, si sa, per una dose si è disposti a tutto. Così l’artista abbandona la strada da dove era nata la sua arte e sale sulla macchina del mercato, da cui non si scende facilmente. Abbandona lo stile geometrico e quello informale, abbandona, o quasi, la natura morta, di cui trasferisce la travolgente staticità nei paesaggi umbri o “paesaggetti” come li chiamano oggi nell’ambiente. Bacosi impacchetta la sua arte in quadri da matrimonio: colline, campi, case e chiese oltre che i celebri alberelli. I paesaggi umbri si vendono per poco, ma a quintali, e per questo c’è bisogno di produrne a tonnellate. Così il suo studio in Borgo XX Giugno diventa una fabbrica d’arte. L’iter era più o meno il seguente: Dante, il suo assistente o segretario o l’emblema di un successo da parvenu, metteva a terra una ventina di tele, intingeva la scopa nella vernice e la passava su ogni tela indifferentemente, poi le tele passavano dal pavimento al tavolo, dove venivano arricchite di particolari già precedentemente preparati in apposite sagome di cartone, bastava poggiare la sagoma dell’albero o della casetta sullo sfondo monocromo e passare col pennello. Poi arrivavava Bacosi e dava una, due pennellate, incideva particolari con il retro del pennello, inventava una collina con il movimento semicircolare del pollice. Chissà se in quei gesti ripensava ai tempi delle poste, alla fuga, perché in quei miseri dettagli fatti con la mano e col cuore tornava l’arte. Ma ormai era troppo tardi, l’artista si era venduto, era come se fosse tornato alle poste ma da direttore. E gli altri artisti questo non te lo perdonano. Nel 1989 Piero Dorazio, dopo essere stato invitato ad esporre in una mostra chiamata Lo stile informale a Perugia, chiese al gallerista che allestiva la mostra:

“Ma c’è anche l’infame?”

“E chi è l’infame Maestro?” ribatté il gallerista.

“Bacosi, noi abbiamo fatto la fame insieme…”

“Si c’è anche lui Maestro”

“E allora i miei quadri non te li do.”

La prima volta che Bacosi morì era il 1998, la sua arte era sparsa per gli appartamenti con vista della città, a lui ne era rimasta poca. Oggi basta digitare il suo nome su Google per avere il forte presentimento che si stia avvicinando alla seconda morte, preservando l’ultimo barlume di splendore solo nella poesia amara che porta con sé il declino.

Intervistando Augusto Lemmi, un grande collezionista d’arte perugino, parlavamo di artisti. Mi diceva che ne ha conosciuti molti nel corso della sua vita.

“Anche Bacosi?” gli faccio io.

Mi guarda negli occhi, commosso, lo giuro.

“Bacosi, se non si fosse rovinato con le sue mani, sarebbe stato il più grande di tutti.”

E Bacosi Manlio se la ride, come di una battuta un po’ volgare, ricordandoci che non è il coraggio a far di un uomo un artista, ma la sensibilità, e che forse la sua fama è stata la più artistica ed immortale delle sconfitte.

 

Un commento su “Bacosi Manlio: un’indimenticabile sconfitta

  1. Ho conosciuto Bacosi nel suo studio e gli ho anche comprato un quadro un Informale 70 x 50 del 1962; mi è piaciuto, mi ha ricordato Burri e l’ho comprato. È un pò duro ma fatto con molto rigore. Ho chiesto una valutazione, una galleria mi ha detto 200-400 euro. La cornice sola costa di più.. Che tristezza questo paese. Comunque ammiro Bacosi che ha ben guadagnato. Complimenti Maestro.

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