di Matteo Minelli
#MorireDiCiviltà/1
La Civiltà ha ucciso, uccide e continuerà a farlo. Lo sanno bene i popoli delle isole Andamane che da un secolo e mezzo combattono la propria battaglia contro il progresso e la modernità.
Grandi Andamanesi, Onge, Jawaro e Sentellinesi, le quattro principali culture originali di questo arcipelago sito nel Golfo del Bengala, potrebbero essere diretti discendenti dei primi uomini che più 100.000 anni fa, provenendo dall’Africa, giunsero a insediarsi nel sud-est asiatico. Tale teoria trova riscontro nelle loro caratteristiche fisiche: statura bassa, colore della pelle assai scuro, capelli crespi che li fanno rassomigliare più ai lontani pigmei che ai vicini indiani e birmani. Insediatisi nelle loro isole da almeno cinquantamila anni, gli Andamanesi hanno vissuto e prosperato in un felice isolamento per la stragrande maggioranza della propria storia. Abilissimi cacciatori e pescatori, ottimi conoscitori del proprio territorio (si calcola che arrivino a distinguere oltre 500 specie tra vegetali e animali), capaci intagliatori, i popoli nomadi dell’arcipelago vantavano un’organizzazione sociale profondamente egualitaria (organizzata in piccoli gruppi di 30-50 individui), una cultura religiosa complessa (caratterizzata dal culto degli spiriti degli antenati, da precisi tabù alimentari, da riti di passaggio minuziosamente codificati), un rapporto con gli ecosistemi locali straordinariamente equilibrato.
Oggi la cultura originale della maggior parte degli Andamanesi è morta e sepolta. Parecchi sottogruppi tribali sono estinti e quelli superstiti sono ad un passo dalla scomparsa. Fatale è risultato l’incontro con la Civiltà. Fin dai primi contatti con l’esterno, databili più di mille anni or sono (è quasi certo che i mercanti arabi sostassero in queste isole lungo le rotte commerciali con la Cina), un’aura di morboso interesse e inusitato terrore circondò gli Andamanesi. Battezzati da subito come sanguinari senza Dio e feroci cannibali, questa nomea li perseguiterà fino al XX secolo, anche grazie al contributo di illustri narratori quali Marco Polo, che li definì indigeni cinocefali, e Sir Arthur Conan Doyle, che nel suo romanzo Il sogno dei quattro assegnò all’andamano il ruolo di assassino indemoniato e sanguinario.
Insomma all’arrivo degli inglesi, nel 1857, la propaganda aveva già così bene operato, che null’altro ci si poteva aspettare se non una grandiosa azione civilizzatrice che sradicasse da questi popoli le loro abitudini ferine e li conducesse verso il luminoso orizzonte del progresso. Così mentre le mogli degli ufficiali inglesi di stanza sull’arcipelago, tra una sorsata di tè e l’altra, glorificavano la coraggiosa opera dei mariti, sulle Andamane gli indigeni morivano come i tonni a Favignana il giorno della mattanza. Logorati da una guerra di resistenza tanto eroica quanto purtroppo inutile, decimati dalle malattie introdotte dai conquistatori e, infine, sterminati dalla mancanza cronica di cibo, in un secolo di occupazione britannica gli Andamanesi passarono dall’essere parecchie migliaia a contare appena 300 unità. Nel 1947, ottenuta l’indipendenza, fu l’India a ereditare il controllo dell’arcipelago. E mentre Nehru e il suo governo si ergevano nel mondo a paladini della decolonizzazione e della lotta non violenta, adottavano nei confronti degli indigeni la medesima condotta dei loro predecessori bianchi. Questa condizione di emarginazione e violenza in cui gli autoctoni sono stati scaraventati non accenna a migliorare nemmeno oggi.
I Grandi Andamani, almeno cinquemila all’arrivo degli inglesi, oggi superano di poco le cinquanta unità; relegati nella minuscola Strait Island hanno completamente dimenticato lingua, usi, tradizioni e cultura originale, sono per lo più malnutriti e cronicamente alcolizzati. Gli Onge, un tempo unici abitanti di Little Andaman, sono stati rinchiusi in unico insediamento: Dugon creek, misera frazione del loro territorio ancestrale, in cui la mortalità infantile è tra le più alte in tutta l’India. Gli Jarawa, a lungo protetti dalla foresta con cui si identificano, hanno visto peggiorare drasticamente la qualità della propria esistenza dal momento in cui è nata la Andaman Trunk Road, una strada costruita negli anni settanta che collega i due estremi dell’arcipelago. Questa via di comunicazione facilita l’ingresso dei bracconieri che sterminano la fauna locale, stuprano le donne, diffondono la piaga dell’alcolismo nella tribù; inoltre la strada permette il passaggio di carovane turistiche che, con la complicità della polizia locale, maltrattano costantemente e in ogni modo possibile gli Jarawa.
E con i popoli delle Andamane muore anche il ricco ecosistema di questo arcipelago ucciso dalla deforestazione, dall’edilizia, dai cacciatori sportivi, dalla pesca selvaggia, da un turismo intellettualmente arido e materialmente distruttivo. La salute dei popoli tribali, come numerosi studi confermano, rappresenta un preciso indicatore dello stato di conservazione dell’ambiente in cui vivono. L’arcipelago, senza la protezione di chi lo abita, lo rispetta e lo tutela da migliaia di anni, è destinato a collassare. Eppure le autorità indiane continuano a voler imporre quella politica di assimilazione che già tanti danni ha causato. E se oggi per molti di noi “integrazione” è una parola felice; tra gli Andamanesi essa è semplicemente sinonimo di pericolo e fonte di paura. Per le tribù l’integrazione ha significato scomparsa di complete etnie e di molte lingue locali, abbandono degli usi e costumi originali, sedentarizzazione forzata, trasferimento coatto in minuscole riserve.
Lo sanno bene i Sentinelesi, che solo grazie all’isolamento e alla ragionevole ostilità verso gli estranei, hanno potuto evitare la stessa sorte degli altri popoli dell’arcipelago. A lungo sconosciuti, sono saliti alla ribalta delle cronache internazionali nel 2004, in occasione del tristemente celebre Tsunami che nelle isole Andamane ha ucciso circa 3000 persone. Allora un elicottero sorvolò l’isola abitata esclusivamente dai Sentinelesi; le autorità erano convinte che questa tribù di appena cento individui fosse stata spazzata via dal maremoto. Al contrario tutti i membri erano sopravvissuti: grazie all’immenso bagaglio di conoscenze sui fenomeni naturali locali avevano tempestivamente compreso ciò che stava avvenendo, e tornati sulla spiaggia dopo il cataclisma si apprestavano a ricevere con frecce e pietre gli indesiderati visitatori dal cielo. Dopo questo episodio i Sentinelesi godono di una “terribile reputazione” ( citazione di “La Repubblica”) e speriamo, per il loro bene, che essa si mantenga tale.
Lunga vita ai Sentinelesi.
Nel video si possono vedere i safari umani che quotidianamente umiliano e danneggiano gli jarawa.
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Articolo molto bello.
La civiltà uccide i popoli tribali.
Voglio essere “libero dalla civiltà”.
Lo sono nel cuore e nel pensiero, ma in pratica no.
Però mi sento meno zombie di tanti altri.
Civilizzazione non è civiltà ma imposizione di costumi ed in questo l’occidente europeo ha eccelso,insieme agli arabi e…
oggi ci accorgiamo che la civilizzazione ci porta all’estinzione…