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di Francesco Merlino

#MidnightInVenice

 

Il 17 ottobre 1797 tutto finì.

Lo splendore di Venezia, la sua posizione di predominanza nei commerci verso oriente, la supremazia navale, i dogi, le riunioni del Maggior Consiglio a Palazzo Ducale, tutto svanì nel momento in cui Napoleone Bonaparte e il conte Johann Ludwig Josef von Cobenzl, venuto in rappresentanza dell’arciducato d’Austria, posero le loro firme sul foglio che la storia ricorda con il nome di Trattato di Campoformio, sancendo la definitiva fine della Serenissima Repubblica di Venezia.
Con il trattato, siglato presso la dimora estiva dell’ultimo doge, Ludovico Manin, la Francia vendette Venezia all’Austria, scatenando lo sdegno dei più, tra cui Ugo Foscolo, che, avendo sempre ritenuto Napoleone un liberatore piuttosto che un oppressore, rimase profondamente deluso dal comportamento dei francesi, che usarono i popoli come merci di scambio.
Da quel giorno Venezia ha iniziato ad invecchiare, a decadere, ad assumere l’aspetto malinconico che conserva tutt’oggi, con l’umidità che fa lacrimare i palazzi come donne bellissime ma tristi.
Da quel giorno Venezia è abbandonata a se stessa, oggetto del desiderio di molti e proprietà di nessuno, una vecchia signora che si alza a metà mattina e comincia subito a bere, pagando con i suoi ricordi amari il prezzo di un passato glorioso e con la solitudine il prezzo della libertà.
Piazza San Marco, Palazzo Ducale, Rialto, tutte le zone che una volta costituivano il fulcro nevralgico del potere e della vita, oggi possono apparire, all’occhio di chi impara a conoscerli, come le forme provocanti di una prostituta, rese irresistibili da un dettaglio di trascuratezza, una sbavatura di rossetto, una calza strappata.
Sta morendo e come Venezia.

Ma ci fu un momento, una parentesi breve per quanto luminosa, durante la quale la Serenissima riassaporò gli antichi fasti. Durò sei mesi, per la precisione, quel momento di compressione spazio-temporale in cui Venezia tornò ad essere giovane e vittoriosa, concedendosi il piacere di pensare alle possibili grandezze del futuro più che a quelle del passato.
La democrazia non ha mai portato un popolo alla grandezza, ed anche in questo caso ci fu bisogno dell’intervento di un capo, un sovrano buono e carismatico che venne da lontano, in perfetta continuità con la tradizione multiculturale della città lagunare, e riunì le speranze dei veneziani, stringendole forte, fino a farle diventare realtà.
Era l’inverno del 1998 e il centro del potere si era ormai da tempo spostato da Palazzo Ducale allo Stadio Pier Luigi Penzo, che sembra un enorme galleggiante in mezzo al mare ma in realtà poggia sull’incerta terra dell’isola di Sant’Elena. Qui ogni domenica i nero-arancio del Venezia Calcio affrontavano nuove guerre, mutuate dall’antichità, a colpi di tacchetti, corsa e sudore, tentando invano di ricostruire l’autorevolezza persa secoli prima.
Sebbene molte furono le prodezze del bomber senza macchia Pippo Maniero, prelevato in estate dal Milan, i nero-arancio arrancavano nelle zone basse della classifica di Seria A, quasi rassegnati al fatto che il sogno di riportare Venezia allo splendore ancestrale fosse terminato anzitempo.
Ma è proprio nei momenti di massima difficoltà che intervengono i grandi della storia, il cui arrivo è spesso preannunciato da una sensazione, un’aura mistica carica della forza incosciente e trascinante della loro ambizione.

Così arrivò Álvaro Recoba, venuto dalla Repùblica Oriental del Uruguay, terra dei Guaranì e dei Maragotos, preannunciato dall’incoscienza ostinata della gioventù.
Aveva vent’anni, come Alessandro Magno o il Generale Custer, e sulle spalle sei mesi passati all’Inter di Ronaldo e poca, pochissima voglia di correre.
I suoi occhi si dovevano cercare con attenzione, piccoli e persi nelle rughe espressive di un volto costantemente arricciato dal ricordo del sole sudamericano. Per questo lo chiamavano El Chino, per il taglio orientale dello sguardo.
Ma quello che davvero faceva la differenza in Alvaro Recoba non era ciò che aveva sulle spalle o nel cuore, quanto ciò che nascondeva nel suo piede sinistro, capace di colpire mortalmente con la calma gelida del killer seriale.
Quel piede sinistrò tenne in equilibrio, a mezz’aria, tutto un popolo, e tutta Venezia corse dietro al Chino Recoba, spingendolo ancora di più, fino a farlo volare, compensando così la sua scarsa propensione alla corsa.

Recoba era Che Guevara, Recoba era la rivoluzione venuta da lontano per aiutare un popolo in difficoltà. Fece undici gol in metà campionato, come il numero che gli fece da vessillo in ogni battaglia, portando il Venezia a chiudere la stagione all’undicesimo posto, a sole quattro lunghezze dall’Inter, in quella che fu, a detta di molti, la più incredibile delle salvezze del calcio moderno.

Se ne andò, come tutti i rivoluzionari una volta compiuta la sua missione, lasciando Venezia sprofondare nuovamente nell’oblio a cui la storia l’aveva consegnata da Campoformio in poi.
Ma quella effimera parentesi servì a ricordare anche ai più giovani cosa fu Venezia, anche solo per novanta minuti, sotto la guida di Álvaro Recoba, l’ultimo, e forse il più grande, doge della Serenissima.

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