Per anni i rivoluzionari della Narodnaja volja cercarono senza successo di assassinare Alessandro II. Lo zar pareva protetto dal fato ma nemmeno il destino poteva fermare la loro incrollabile volontà di vendetta.
Intorno alle dieci di mattina del 3 aprile 1881 quattro uomini e una donna salivano al patibolo. Uno solo, Rysakov, forse sotto il peso degli interrogatori o nella vana speranza di salvare la propria vita, si dichiarava pentito d’essere stato un terrorista. Gli altri Michajlov, Kilbal’čič, Željabov e Sof’ja Perovskaja, la prima donna ad essere giustiziata in Russia per motivi politici, si unirono per l’ultima volta in una stretta fraterna. Poi fu la corda ad abbracciarli uno per uno.
Così morivano a San Pietroburgo gli ideatori, gli organizzatori e infine gli esecutori materiali del riuscito attentato alla vita di Alessandro II. L’ultimo di una lunga serie di tentativi, falliti più per sfortuna che per incompetenza, che da due anni avevano risucchiato tutte le forze della Narodnaja volja, (Volontà del popolo o Libertà del popolo), un’organizzazione terroristica sorta dalle ceneri del movimento populista. I narodvol’cy avevano, infatti, votato nell’agosto del 79’ la condanna a morte dello zar. Non si trattava soltanto di un passaggio fondamentale verso l’insurrezione e la rivoluzione sociale ma era, prima di tutto, una vendetta dovuta a tutti quei giovani che Alessandro II aveva fatto deportare e morire tra le prigioni ghiacciate della Siberia. Giovani colpevoli di eccessivo idealismo e scarsa prudenza, di troppo coraggio e poco realismo. Giovani catturati, torturati e uccisi alla fine di quel sogno amaro che fu la Crociata Populista.
E appena la condanna fu pronunciata i membri della Narodnaja volja si diedero subito da fare per tentare di eseguirla. Già nel settembre del 79’, lungo il tragitto che lo zar doveva percorrere in treno di ritorno dalla Crimea, vennero piazzate mine in tre diversi punti. Ma il maltempo di quei giorni fece si che Alessandro II cambiasse itinerario all’ultimo minuto e così l’impresa fu liquidata. Il secondo tentativo vide di nuovo protagonisti la linea ferroviaria e il convoglio reale. Fu Željabov a collegare le micce agli esplosivi che egli stesso aveva posto sotto le rotaie. Questa volta il treno imperiale passò, il detonatore fu azionato, ma inspiegabilmente l’esplosione non si verificò. Già il giorno seguente fu messo in atto un ulteriore colpo. Nei pressi della stazione di Mosca i congiurati fecero saltare per aria un intero vagone, salvo tristemente scoprire poi che si trattava di quello della servitù e non della famiglia reale.
Nel frattempo buona parte degli appartenenti al comitato esecutivo della Narodnaja volja veniva catturato dalla polizia zarista. Consci della delicatissima fase in cui si trovavano, i cospiratori ancora in libertà dichiararono “O salta lo stato o saltiamo noi.” E siccome si trattava di rivoluzionari, non per gioco e neppure per professione, bensì per amore del popolo, non aspettarono che qualche mese attentare ancora alla vita dell’odiato sovrano.
Stepan Chalturin, che da mesi si era fatto assumere come operaio nella residenza imperiale a San Pietroburgo la sera del cinque febbraio 1880 piazzò un’importante carica di dinamite sotto le volte di una stanza in cui si sarebbe dovuto trovare lo zar. Ma lo scoppio, che provocò undici morti e cinquantasei feriti, non fu sufficiente a far crollare il pavimento sotto i piedi di Alessandro II, che ancora una volta ne uscì miracolosamente illeso. Altri due tentativi pianificati nella primavera e nell’estate dello stesso anno si risolsero in un nulla di fatto.
Un alone mistico sembrava proteggere lo zar, tanto più che già nell’aprile del 1879 non aveva riportato nemmeno un graffio dopo che Aleksandr Konstantinovič Solov’ëv gli aveva sparato ben cinque colpi a distanza ravvicinata mentre passeggiava in Piazza del Palazzo. Attentato che si concluse con la cattura e l’impiccagione del giovane e che segnò la definitiva spaccatura del movimento populista. Da quel giorno, gli uomini e le donne, che avrebbero dato vita, di li a breve, alla Narodnaja volja non smisero mai di cercare accanitamente la morte dell’imperatore.
Un obiettivo che fu finalmente realizzato in uno dei momenti più difficili per l’organizzazione. Mentre ventuno dei loro compagni venivano condannati nel corso del 1880 a passare la vita nei terribili Katorga, le colonie penali della Siberia più remota e mentre Aleksandr Michajlov, leader del gruppo, era posto agli arresti, i membri rimasti in libertà riuscirono a mettere in piedi un attentato legato da un filo di azioni così forte che nemmeno le parche sarebbero riuscite a reciderle.
Dopo mesi di sorveglianza continua conoscevano perfettamente le abitudini dello zar. Ogni domenica Alessandro II si recava al maneggio e di ritorno dalla cavalcata percorreva sempre la via piccola dei Giardini. Il piano era di scavare sotto la strada una galleria da riempire con materiale esplosivo. Se la deflagrazione avesse fallito, allora sarebbe stata la volta di quattro compagni armati di bombe a mano, seguiti a ruota dal solito Željabov che avrebbe affrontato lo zar con pugnale e rivoltella. Appare chiaro che non si trattava di un attentato come gli altri, ma di un’azione partigiana che si voleva potare a termine ad ogni costo, tanto da impiegarvi un vero e proprio commando.
Pure questa volta il fato lavorò contro i narodvol’cy. Non solo Željabov fu catturato quattro giorni prima dell’operazione, torturato non cedette, ma anche questa volta Alessandro II cambiò strada all’ultimo minuto. Fu soltanto l’attenzione della Perovskaja, coordinatrice dell’assalto, a permettere la riorganizzazione dei congiurati che, privati della soluzione esplosiva, si spostarono rapidamente lungo il nuovo percorso per accogliere lo zar a colpi di granate. Toccò ancora alla giovane Sof’ja segnalare a Rysakov, il primo dei lanciatori, il passaggio della carovana reale. La prima bomba a mano esplose alle due e un quarto del 1 marzo 1881, facendo saltare per aria il posteriore della slitta imperiale e colpendo un certo numero di persone, tra cui lo stesso lanciatore. Alessandro II, ancora illeso, si diresse, scortato da alcuni cosacchi verso Rysakov, ma quando si volse indietro fu raggiunto dal secondo lanciatore, Grinevinckij, che da un passo di distanza gli gettò la bomba tra i piedi. La detonazione fu violenta e una nube di fumo si diffuse rapidamente. Quando il nugolo iniziò a diradarsi ricomparve l’immagine dello zar, poggiato alla ringhiera del canale, che respirava appena, perdeva molto sangue e implorava aiuto. Morì un’ora dopo al Palazzo d’Inverno. Le ferite riportate nell’esplosione uccisero anche il suo assassino.
Rysakov invece sopravvisse; arrestato, interrogato e torturato notte e giorno cedette rivelando i nomi dei suoi complici. Di li a breve tutti gli organizzatori e i partecipanti all’attentato ancora in libertà vennero presi. Al processo, iniziato il 26 marzo, Željabov, parlò a nome di tutti e non rinnegò nulla di ciò che avevano fatto, compresa la lotta armata, che i narodvol’cy dichiaravano di ripugnare più dei servitori del governo, ma che erano costretti a praticare per una triste necessità. Cinque giorni dopo si consumò la tragica fine dei condannati, che, fedeli alle parole di Michajlov, “la via è una sola, sparare al centro”, avevano ucciso lo zar di tutte le Russie.
Matteo Minelli