di Matteo Minelli
#AgriCulture1
Gli ultimi dodicimila anni di storia umana si possono condensare in un’unica parola: agricoltura. Di gran lunga l’attività umana più importante.
I palentologi Richard Leakey e Roger Lewin nel saggio Origini propongono al lettore un metodo semplicissimo per comprendere l’evoluzione del nostro pianeta. Immaginiamo che la storia della Terra sia un libro di mille pagine. La comparsa della vita si collocherebbe alla settecentocinquatesima pagina. Gli ominidi spunterebbero nelle ultime tre pagine. L’homo sapiens sapiens non apparirebbe che alla riga finale. E tutti gli eventi degli ultimi diecimila anni sarebbero condensati in un’ultima unica parola. Se dovessi dare un nome a quell’ultima unica parola, un nome che fissi in poche lettere dodici secoli di storia umana, non potrei che chiamarla Agricoltura.
La “scoperta” dell’agricoltura rappresenta l’evento di gran lunga più importante nella storia dell’umanità. Non a caso Gordon Child, padre della paleontologia moderna, la definì “Rivoluzione Neolotica”. Fino a diecimila anni prima di Cristo sulla faccia della Terra non vivevano che un milione di individui dediti alla caccia, alla raccolta e alla vita prevalentemente nomade. Fu allora che, nell’area geografica nota come Mezzaluna Fertile, per la prima volta cominciarono i processi di domesticazione di quelle specie vegetali destinate ad essere la base alimentare dell’uomo per i millenni a venire: cereali e legumi. I nostri antenati intervennero sia sull’ambiente naturale in cui tali varietà crescevano, eliminando le piante concorrenti non commestibili (che siamo soliti definire con disprezzo “infestanti”), sia sulle specie stesse, modificandone l’aspetto, la consistenza, le dimensioni; il tutto mediante una rigorosa selezioni dei semi.
Al principio l’agricoltura non poté che essere itinerante; l’uomo incapace di comprendere i processi di arricchimento e impoverimento del suolo si spostava ciclicamente colonizzando nuove terre vergini. Con il tempo l’attaccamento ad alcuni luoghi particolarmente adatti all’insediamento e la parallela scoperta di nuove tecniche produttive come l’utilizzo della rotazione, del maggese e delle prime rudimentali forme di fertilizzazione, resero finalmente possibile la nascita di villaggi sedentari. Non dobbiamo tuttavia assimilare la transizione agricola ad un virus inarrestabile che si propaga all’interno di tutte le comunità umane del pianeta ma piuttosto come un fenomeno che interessa autonomamente alcune zone del globo in epoche diverse tra loro. Un fenomeno peraltro in lenta evoluzione, in cui furono frequentissimi balzi in avanti e scatti all’indietro, ibridismo tra diverse forme produttive, incrocio di stili di vita vecchi e nuovi. La scelta di dismettere l’abito di cacciatori raccoglitori e prendere quello di agricoltori non fu affatto semplice e priva di contraddizioni. In gioco vi erano numerosi fattori capaci di orientare in una direzione piuttosto che in un’altra le decisioni di ogni gruppo umano; preferenze alimentari, allocazione di risorse, prestigio sociale, costi-benefici, occupazione del territorio.
Gli studiosi di tale fenomeno sono propensi ad immaginare che il cambio di organizzazione produttiva non sia stato ovunque vissuto con straordinario entusiasmo e nemmeno con pacifica rassegnazione. Il passaggio all’agricoltura sarà gravido di conseguenze (molte delle quali ancora attuali); con esiti che per molti individui e gruppi si dimostreranno drammatici.
Il primo e più importante effetto dello sviluppo delle coltivazioni fu la nascita del surplus. Gli uomini divennero produttori e subito cominciarono ad accumulare più di quanto gli era necessario. Queste eccedenze che in una società itinerante come quella dei cacciatori raccoglitori sarebbero state inutili poiché impossibile da immagazzinare e conservare, nelle società sedentarie iniziarono ad essere stipate ed utilizzate sia per la semina dell’anno seguente che per il consumo. Divenne così necessario difendere le preziose scorte tanto dagli eventi naturali che ne avrebbero potuto determinare la distruzione quanto dalle mire di vicini troppo affamati. Fu allora che una parte dei membri della comunità fu esentata dal lavoro nei campi per essere destinata alla protezione del surplus e alla sua suddivisione tra tutti gli abitanti del villaggio. Gradualmente coloro che erano destinati alla salvaguardia delle scorte alimentari e alla loro gestione assunsero un ruolo preponderante delle decisioni relative alla vita della comunità e finirono per esercitare forme di controllo sempre più opprimenti sul resto della popolazione. Dall’autosufficienza dei gruppi familiari e perfino dei singoli individui che caratterizzava la vita nomade dei cacciatori raccoglitori, si stava passando all’interdipendenza che lega i membri di una società divisa in classi, in cui la suddivisione delle mansioni obbliga tutti ad una coesistenza più o meno forzosa. L’accumulo di risorse alimentari, la nascita di gruppi dirigenti, l’incremento degli individui appartenenti alla comunità furono alla base di quei passaggi, come la creazione delle città, la centralizzazione politica, la distinzione dei poteri, la specializzazione del lavoro, l’intensificazione di scambi e commerci che segnarono il sorgere della Civiltà.
Naturalmente ci vollero millenni affinché le prime città-stato, gli imperi e le grandi Civiltà si facessero spazio nella geografia politica del mondo. E ci vollero molti più anni prima che questi modelli di organizzazione sociale divenissero maggioritari e poi totalitari in tutti i quattro angoli del pianeta. Come ciò avvenne è una storia uguale e diversa in tutte le epoche e in tutti i luoghi della Terra. Una storia cruenta, e soprattutto una storia sbagliata.
Perché l’agricoltura è stata e continua ad essere una grande trappola, un gigantesco abbaglio. Abbiamo visto che la prima conseguenza del surplus è la stratificazione sociale con tutte le sue conseguenze. Il secondo effetto, che con il primo si sposa drammaticamente bene, è l’incremento esponenziale della popolazione umana. Con la “scoperta dell’agricoltura” si avvierà un trend di crescita inarrestabile che durerà fino all’anno mille dopo Cristo. In undicimila anni la popolazione umana passerà da uno a più di trecento milioni di soggetti, compiendo un balzo in avanti spropositato se si considerano le stime delle crescite nei precedenti millenni. Mentre le comunità di cacciatori-raccoglitori infatti avevano imparato a raggiungere e poi mantenere stabile il numero dei propri appartenenti, così da non determinare in un dato ambiente un calo delle risorse vegetali ed animali, quelle agricole innescano un processo che pressappoco è riassumibile in tre fasi: più cibo più figli, più figli maggiore bisogno di cibo, maggiore bisogno di cibo necessità di nuova terra da coltivare, e così via. Il problema è che in tutta la Terra una volta scartati laghi, fiumi, mari, oceani, deserti, superfici ghiacciate, zone paludose e picchi montani, le aree da dissodare non restano poi molte. E queste zone per ovvi motivi sono da sempre oggetto di maggiori contese.
Come le comunità agricole abbiano avuto il sopravvento su quelle di cacciatori-raccoglitori è piuttosto semplice da spiegare. Grandi quantità di cibo, superiorità numerica schiacciante, capacità di mantenere una classe militare in perenne stato di guerra, e con il tempo, tecnologie sempre più avanzate, resero, al di là di casi sporadici, le “guerre indigene” un triste gioco al massacro.
Se per coloro che rifiutarono di imbracciare la zappa l’orologio della storia iniziò a scandire un drammatico conto alla rovescia, per chi fece della vanga e della falce il suo strumento di vita l’agricoltura divenne un’autentica maledizione. Per dodicimila anni infatti sulle spalle dei contadini, ovunque nel mondo, si costruirono imperi, si edificarono templi, palazzi e metropoli, si conquistarono colonie, si svilupparono i commerci, si realizzò l’arte, si inventò la scienza; insomma, si rincorse il futuro, si realizzò il beneamato progresso. Ogni epoca ed ogni reame, repubblica o principato ha avuto il suo modello agricolo di riferimento, dal quale succhiare le risorse indispensabili alla sua stessa esistenza e sul quale scaricare i costi collettivi dello sviluppo. È dunque un vincolo inscindibile quello che si innesca tra modello agricolo e sistema economico,politico e perfino culturale nel significato più completo del termine di ogni società umana. Muta il primo, muta il secondo, crolla il primo crolla il secondo.
E allora, cosa sarebbe stato l’impero romano senza le orde di schiavi impiegati nelle grandi proprietà? Come avrebbe potuto prosperare e poi fallire miseramente il feudalesimo se non ci fossero stati milioni di servitori della gleba? La verità è che senza i lavoratori dei kolchoz Yuri Gagarin non avrebbe mai messo piede nello spazio e senza i braccianti di Nardò illustri intellettuali e scienziati non potrebbero chiacchierare dal pulpito di una cattedra universitaria. Produrre cibo resta ancora oggi l’attività più importante del genere umano, poiché è quella che permette a tutte le altre di esistere e di svilupparsi. Ce lo ricorda bene la fame, che per noi occidentali contemporanei è quel leggero appetito che precede l’orario dei pasti, mentre per centinaia di milioni di individui di tutte le epoche, compresa quella attuale, è il morso insaziabile della compagna di una vita intera.
Bellissimo articolo.
Io sogno un mondo de-agricolturizzato, un mondo che era sempre esistito e che noi abbiamo voluto trasformare. Il mondo di adesso stà precipitando nel baratro, a causa del nefasto avvento dell’agricoltura di dodicimila anni fa, coi sui tristi annessi (tecnologia ed industrializzazione).
Dobbiamo avere il coraggio di abbandonare il nostro attuale stile di vita, ritornare alla Natura.
Le ultime tribù di cacciatori raccoglitori, devono essere i nostri insegnanti.
Grazie Mille Gianni come sempre per la tua partecipazione al dibattito. Diciamo che con l’attuale popolazione mondiale è praticamente impossibile tornare a quello stile di vita, che ancora alcuni popoli riescono a praticare. Nei prossimi articoli parlerà dei danni a livello ambientale e salutare provocati dall’agricoltura contemporanea e proporrò quelle che considero le uniche alternative possibili per la produzione di cibo: agricoltura sinergica e naturale.
Un abbraccio
articolo molto interessante ed istruttivo, grazie! Serve sempre ricordarci le basi della nostra esistenza!
Grazie mille Samanta per la lettura e per il commento.