Is it worth it? Let me work it
I put my thing down, flip it and reverse it
Missy Elliott, Work it
Purtroppo pare che Missy Elliott fosse impegnata quando si è tenuto il primo capitolo delle nostre “Lezioni d’Anarchia”, ma ce la siamo cavata bene anche in sua assenza, con l’aiuto di Stefano Boni, professore dell’Università di Modena e antropologo, e degli dèi che ci hanno finalmente regalato una giornata di sole e un acceso dibattito nella nostra location preferita: i giardini di fronte a Edicola 518.
Ci siamo arrivati dopo un lungo viaggio: attraverso i box 9 per 17, i progetti freelance, attraverso i software e il coding, gli influencer, le macchine obsolete e gli artigianali eccessi di creatività. Attraverso la nostra confortevole schiavitù sponsorizzata da MasterCard e dal lavoro forzato. Stefano Boni ci ha accompagnato in un viaggio agli albori dell’umanità, che ha ripercorso il nostro passato di caccia e raccolta nella società dell’abbondanza fino all’invenzione di agricoltura e addomesticamento. Addomesticamento anzitutto di noi stessi, come ha riferito Boni citando James Scott a proposito del fatto che mentre noi ci stanziavamo, legavamo animali per addomesticarli e seminavamo grano gettando le basi per il culto dell’accumulazione, quelli che si imprigionavano a poco a poco eravamo proprio noi: non più cacciatori e esploratori che si adattavano all’ambiente, ma schiavi delle nostre patate o chi per loro.
Da quella svolta primordiale, l’essere umano non ha mai ritrovato piena autonomia lavorativa, e ogni nuovo approdo tecnologico l’ha ristretta ulteriormente anziché ampliarla: dalla rivoluzione industriale all’alienazione da lavoro spiegata da Marx, dal buddismo come strenua forma di resistenza alle maestranze dimenticate, le pratiche in via d’estinzione e le banche che controllano il mercato con lo strapotere un tempo prerogativa dei re. Adesso, persa ogni forma di autenticità, ci appelliamo ai prodotti in serie, a oggetti che hanno la durevolezza di un caffè e a tutto ciò che è smart. Anche ciò che mangiamo, con l’etichetta del “bio”, ci viene restituito nel mercato globale come versione eccezionale di ciò che un tempo era la norma. Nel panorama della produzione frammentata e di una tecnologia avanzatissima, le nostre società sembrano vivere tutto al di fuori di un processo di liberazione: codipendenza e autonomia ai minimi storici sono gli imperativi del nostro svelto rituale di lavoro e consumo.
Dai lontani tempi della schiavitù dai nostri cereali siamo giunti fino alla schiavitù dai nostri telefoni, i nostri “mi piace”, le nostre macchine e vestiti: ci facciamo sfruttare per stipendi che spendiamo per cose che altre persone nel mondo vengono sfruttate per produrre, facendo da motore di questo stile di vita. Quindi come migliorare? Come reinventare questa catena di eventi, il circolo infinito del consumo, e reagire? È intorno a questi interrogativi che ha ruotato il lungo dibattito con i presenti, con domande ed esemplificazioni calzate sulle esperienze individuali e con un filo conduttore di resilienza e abbandono della “comfort zone” per pensare ed agire in modo attivo, con una nuova e necessaria mentalità.
Dopo tutto, le possibilità sono là fuori e sono concrete. Dobbiamo soltanto lavorare nella giusta direzione.