di Alessandro Albana
Fidel Castro è morto questa mattina, a 90 anni, in una Cuba ancora sua ma – è lecito pensare – molto diversa da quella che immaginavano i guerriglieri della rivoluzione che, guidati proprio dai fratelli Castro, liberarono L’Avana da anni di corruzione e malaffare, strappandola al governo Batista. Un Paese, a conti fatti, molto cambiato in quasi sessant’anni di storia rivoluzionaria, anche (ma non solo) dopo lo storico riavvicinamento con gli Stati Uniti.
Negli anni Cinquanta L’Avana era la capitale mondiale del turismo sessuale e del gioco d’azzardo, la meta preferita per turisti dalle tasche farcite di dollari pronti per essere sventagliati in un casinò o in una qualche camera d’albergo, in compagnia di una linda cubana, magari ancora adolescente.
Era questa la Cuba del giovane Fidel, questi i suoi anni Cinquanta. Trascorsi per poco tempo in condizione di libertà, visto che il 26 luglio del ’53 con l’assalto alla caserma della Moncada ha inizio la biografia politica di Castro. In quell’occasione, molti degli assalitori vennero condannati a morte subito dopo l’arresto per volontà diretta del presidente Batista. Anche Fidel venne condannato, ma Batista lo graziò concedendogli una meno irreversibile permanenza nelle prigioni di stato.
Turismo sessuale e gioco d’azzardo. Ma anche povertà diffusa e radicata, un popolo abbruttito dall’opulenza di una classe politica corrotta dai dollari e dalla presunzione di un potere che si considerava assolto delle responsabilità di lavorare per l’emancipazione di milioni di persone costrette a marcire nel pantano dell’ignoranza e dell’indigenza.
Nel ’59 i fratelli Castro, Ernesto Che Guevara, Camilo Cienfuegos e i soldati della guerriglia entrano all’Avana. Batista scappa. Quei soldati, che in molti casi erano prima stati contadini, entrano nella capitale cubana da liberatori.
La storia di Cuba sotto la guida di Fidel racconta di anni non facili. La partenza è già critica, in un mondo spaccato a metà, con Usa e Unione Sovietica alla ricerca sfrenata di governi amici, più o meno reali, in tutto il globo, con un’economia nazionale da tempo in ginocchio, priva di apparti di produzione significativi ed esasperata dalla corruzione.
Castro si nasconde nella selva cubana, da cui conduce la guerriglia, per almeno tre anni prima di entrare all’Avana da vincitore. Ma neanche la vittoria si rivela permanente, e il líder maximo si trova a dover affrontare un tentativo di invasione da parte statunitense – lo sbarco alla Baia dei Porci del 1961 – e, in rapida successione, la Crisi dei Missili sovietici rivolti verso i non distanti Usa. Per la fortuna di tutti, lo sbarco fallisce e i missili vengono smantellati. Si aprono così gli anni dell’embargo imposto dal Congresso statunitense; un embargo pesante, insensato, durato per decenni e solo recentemente rivisto. Cuba è povera, e neanche il sostegno economico sovietico – spesso assolutamente inconcludente – è di grande aiuto.
Ma questi sono anche gli anni in cui Cuba si trasforma nel laboratorio del socialismo. Pur con i pochi mezzi a disposizione, nell’isola si riesce a realizzare uno dei migliori servizi sanitari al mondo e un efficiente sistema scolastico. Entrambi richiameranno, nei decenni, maree di studenti e professionisti da tutta l’America Latina. La povertà, seppure contrastata, si conferma un problema. Difficile immaginare come sarebbe potuta andare diversamente per un’isola che vive di canna da zucchero e costretta nelle maglie dell’embargo imposto dall’ingombrante vicino statunitense.
Certo, in politica non ci sono santi, e la storia politica di Fidel non fa eccezione. Le contraddizioni non mancano, e del resto hanno inizio molto presto. Si pensi alla morte di Cienfuegos, precipitato con l’aereo su cui viaggiava. Fidel fu accusato da alcuni ambienti di essere il responsabile di quel disastro. Quale che sia la verità, la nostra o la vostra idea, tali responsabilità mai vennero accertate. Poca cosa, comunque, se paragonata ad una visione diffusa, e spesso creata ad arte, di un governo fortemente repressivo, di una dittatura brutale che in Fidel Castro, si dice, ha trovato la sua massima espressione.
Almeno oggi che a Cuba è iniziata una storia diversa e quella di Fidel vede la fine, un po’ di onestà politica e intellettuale ci pare d’obbligo. Non si negano le contraddizioni del caso, ma questa rinnovata onestà non può permettere che quelle contraddizioni pongano un’ipoteca su tutto il resto. “Tutto il resto”, per inciso, sono quasi sessant’anni di storia in cui un popolo costretto alla povertà e all’ignoranza ha camminato sulla strada della propria emancipazione. La povertà è rimasta, ma c’è ancora tutto un mondo di storie, biografie, percorsi – individuali e collettivi – non misurabile in Pil. “Tutto il resto”, insomma, non ci sembra poco. Del resto, era stato lo stesso Fidel, già anziano e da tempo “affiancato” dal fratello Raul, a mettere le cose in chiaro, come si fa in un testamento: “Le cause non sono sconfitte quando cadono gli uomini che le rappresentano”.