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di Antonio Brizioli

 

Se fosse stato un brav’uomo, potremmo limitarci a piangerlo, ma siccome è stato un maestro, bisogna recuperarne il portato.

Il mio primo incontro con Bert Theis e Mariette Schiltz ha avuto luogo alla cooperativa Sassetti, uno dei pochi luoghi che richiamano il passato popolare e operaio del quartiere Isola. Bert, l’ho capito tempo dopo, era totalmente affascinato dalla fabbrica, dal sindacato, dallo sciopero, dalla realtà operaia, da tutti quegli elementi di un mondo forse prossimo a sparire nelle sue forme concrete, ma non certo nell’immaginario che evoca, del quale Bert era totalmente avviluppato.

Veniva da un paese ricco, il Lussemburgo, quasi un’oasi protetta, di cui pure sapeva sviscerare ingiustizie e contraddizioni. Quando camminavo con lui per la città di Lussemburgo non ne celebrava mai gli splendori e le glorie, ma cercava sempre di tirare fuori lo sporco nascosto sotto il tappeto: la povertà in aumento, il malcontento giovanile, i privilegi fiscali e i loro risvolti negativi, le proteste, l’infelicità.

La prima dote di Bert era la capacità di coinvolgere ed includere. Bastava un incontro e se vedeva in te qualcosa di stimolante eri già a bordo di una barca di cui lui era l’indiscutibile nocchiero, ma all’interno della quale si poteva partecipare democraticamente e attivamente alla traversata.

In un contesto sociale nel quale parlando con un professionista di qualche generazione più vecchio di te sei solito aspettarti nella migliore delle ipotesi un algido distacco, nella peggiore una porta in faccia, la sua disponibilità era una caratteristica rivoluzionaria. Ed è con questa attitudine naturalmente inclusiva che ha saputo formare decine di giovani artisti, curatori e attivisti che oggi operano in numerose città del mondo. Tutti alle prese con percorsi diversi ma tutti con la radice aggrappata all’addestramento bertiano, che induceva a confondere l’arte con la vita, ad usare il pennello come una baionetta, la tela come una superficie bianca sulla quale immaginare nuovi rapporti sociali.

Così fra il primo incontro e il secondo, senza chiedere il permesso a nessuno, ero già passato da studente intervistatore per una tesi di laurea sull’arte in rapporto ai cambiamenti del quartiere Isola, a membro di un gruppo di lavoro fluido ma radicato.

La prima riunione di Isola Art Center cui ho partecipato la ricordo come si ricordano le prime volte. Eravamo a Medionauta, ovviamente nel quartiere Isola, e c’erano oltre a Bert e Mariette, Camilla Pin, tutt’oggi amica e compagna, Daria Carmi, che ho perso di vista ma so essere assessore alla Cultura del comune di Casale Monferrato e Elena Mantoni, che un destino infame ha portato via prima di Bert che gli era maestro.

Si organizzava una mostra, non ricordo neanche con esattezza quale. Forse quella tenutasi a Frigoriferi Milanesi nel 2012, di cui mi feci volontariamente guardiano a tempo pieno, per imparare ciò che le circostanze fortunate mi stavano dando l’enorme possibilità di apprendere. Bert non ha mai pensato di spiegare a qualcuno come si facessero le mostre: si immaginava lo spazio, si appoggiavano le cose, si prendevano gli attrezzi e l’esposizione prendeva vita in un work in progress continuo.

Prima di aprire bocca ho aspettato due o tre riunioni: cercavo di capire, ascoltare e sentivo lentamente rivoluzionata la mia concezione del mezzo artistico.

Fight-specific, mi piaceva. L’arte come mezzo per lottare, rivendicare, resistere e costruire, superando il piano della protesta in sé per farne presupposto della costruzione di pratiche nuove, coraggiose, attente. Su queste parole si articolava il sogno estremo di un Bert ancora in grande forma ma già malato: racchiudere in un libro la storia del quartiere Isola e delle battaglie da lui intraprese insieme a tantissimi altri per proteggerlo, per immaginarne uno sviluppo più umano e condiviso di quello che ha avuto la meglio.

Un libro per far sì che non se ne andasse tutto via con lui, che la storia del quartiere non venisse seppellita sotto il peso della mitologia di chi l’ha comprato senza accontentarsi di cambiarne la vocazione, ma giungendo al punto di volerne cambiare il nome. “Isola” rischiava di diventare una suggestione nostalgica da nomenclatura di fermata metro, mentre l’agglomerato di case, attività e relazioni umane si trasformava in distretto di Porta Nuova.

Sono fiero di averlo aiutato in questa necessità così urgente che forse ha contribuito anche a fargli mettere da parte la malattia. Non era guarito, semplicemente per un po’ si era scordato di stare male, sospinto dalla voglia di raccontare la sua storia, di rimettere insieme quelle migliaia di documenti e scartoffie che erano l’archivio di Isola Art Center: un faldone stracolmo per anno, dal 2001 al presente.

Un’altra delle doti di Bert, propria solo dei grandi intellettuali, era infatti quella di sapersi riconoscere come parte di un processo storico e di accordare pertanto un peso determinante alla trasmissione delle sue idee, esperienze e conoscenze.

Sono fiero di aver scritto quel libro passo passo con lui e Mariette, perché è un testo che racconta l’Isola dalla prospettiva di chi ci è arrivato per caso e ha saputo coltivare un sogno con la vanga dell’utopia concreta. Alcuni lo hanno ritenuto parziale. E in effetti lo era, consapevolmente. Parziale era anche Bert, come tutti noi. Non voleva narrare la verità ma “la sua verità”. Il portato di una vicenda intensa e pratica doveva farsi principio ispiratore. Un esempio (parola questa molto cara a Bert, che la preferiva al più inquietante “modello”), da cui trarre gli strumenti per nuove pratiche.

L’esperienza del libro è stata per me fondamentale. Mi ha dato la possibilità di partecipare attivamente ad ogni fase della costruzione di un progetto editoriale atipico e ambizioso e mi ha concesso di intervallare un lavoro d’archivio logorante con chiacchierate e confronti che erano al contrario rigeneranti.

Park Fiction, John Heartfield, Mario De Micheli, i muralisti messicani, Courbet, Chto Delat?, Chantal Mouffe, Marx, il ruolo beffardo del PCI nel controllare le proteste anziché aiutarle a divampare, la gentrificazione (parola oggi comune ma allora drammaticamente affascinante), lo spazio pubblico, Mirò, il situazionismo, Debord, Rancière, il Van Abbemuseum, la Grecia, lo spaccio come strategia di propaganda, il divide et impera delle multinazionali, il compromesso, Piero Gilardi, Rodcenko, sono solo alcuni degli argomenti correnti di discussioni che duravano ore.

Quando mi mostrava la cittadella giudiziaria di Lussemburgo, con le sculture contemporanee eppur classicheggianti dei fratelli Krier, restava bloccato dall’indignazione. Io per provocarlo dicevo che non erano poi così male e lui si incazzava ancora di più. Oggi posso dire che facevano schifo anche a me, ma l’aveva capito, credo.

Poi di nuovo a scrivere, rifocillati di tanto in tanto da Mariette che portava un tè o una merenda preparata con passione, nella quiete selvaggia della foresta lussemburghese a trovare forme e parole di un libro infine pubblicato: Fight-Specific Isola. Il come e il dove, fianco a fianco in una formula sintetica ma precisa: lottare con l’arte all’Isola, era quello che faceva Bert e che per un breve periodo della nostra vita abbiamo fatto anche noi, credendoci davvero.

Poi tante esperienze insieme: Lubiana, Venezia, San Mauro Cilento. A quest’ultima è oggi necessario attribuire un valore particolare. Da una parte è stata la disgregazione di tante anime che gravitavano dentro o intorno a Isola Art Center. Dall’altra conteneva in sé il germe della loro ricomposizione. Una ricomposizione che può e deve avere luogo intorno all’esempio che Bert ha saputo trasmettere a generazioni intere di giovani che in molti casi si sono distaccati da lui (a volte anche in modo violento), ma che in nessun caso hanno potuto rinnegare i suoi valori o il fascino sovversivo delle sue pratiche.

Oggi li vedo un po’ tutti, noi a Perugia e Milano, altri a Bruxelles, Londra o Berlino. Non concepiamo altra arte che non sia immersa nelle dinamiche infami eppure emozionanti della realtà. Rifiutiamo il cubo bianco, i rapporti di gerarchia, l’esclusione sociale e il legame con istituzioni che compromettono l’indipendenza. Ci emozioniamo coi fotomontaggi di John Heartfield, con i murales di Diego Rivera, con i poster dell’Atelier Populaire per il Maggio 68, sosteniamo le lotte di RiMaflow, di Park Fiction, di Macao e siamo sempre pronti ad aprire nuovi fronti di battaglia.

Viviamo declinando i valori che Bert ci ha insegnato e cercando di correggere gli errori che secondo noi ha commesso. Così succede, d’altra parte, con i maestri.

E lui è stato, per me e per molti, quello che in altri tempi si sarebbe definito “un cattivo maestro”.

Un commento su “Bert Theis, il cattivo maestro che ci ha tracciato il solco

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