di Andrea G.G. Parasiliti
Affermare che una bella giovane campana si sia uccisa per gogna mediatica o per istigazione al suicidio (e così consolarsi), oltre a oscillare fra il tragico e il ridicolo, è tutto uno scavare la fossa collettiva, quindi infilarvi la testa di un intero paese, a mo’ degli struzzi e, infine, soccombervi.
La morte sconsolata di una delle discendenti della Maddalena archetipale equivale alla fine di un’Era. Il fatto che quest’anno, in particolare, è anno giubilare della Misericordia più che un sintomo è un indizio. Così, al posto di magistrati e giornalisti, servirebbero teologi. Allo stesso modo, piuttosto che diffondere villanamente la notizia (con tanto di nome e di foto su tutti i giornali) allettando i cultori della blasfemia e, di fatto, caldeggiando chi ancora non l’avesse vista nell’eterno peccare a trovare immediato rimedio, sarebbe opportuno il silenzio, religiosissimo.
Vestire i panni della meretrice anche per una sola notte è sogno eversivo, panico, antico. L’autodisciplina, la svolta trascendente, avviene con l’obbedienza e la pratica religiosa. E non senza vantaggi, ci ricorda Cristina Campo, la più nobile delle scrittrici italiane del secolo scorso (e per favore non pensate sia questione di femminismo, prendete in mano Gli Impendonabili, li trovate in una edizione Adelphi). Solo che il web è un villaggio globale, con tutte le paure e i pregiudizi, appunto, di un villaggio. Ed è il luogo dove vive si pasce e cresce l’individuo massa il quale, da mero consumatore di notizie, si tramuta sempre più spesso in agente attivo del processo di produzione, post-produzione e distribuzione. È l’interattività della società di massa, la società di massa 2.0. Quella del non conosci la tua lingua ma tanto devi apprendere l’inglese. A tal punto da far inquietare, poco tempo prima della propria morte, un integrato come Umberto Eco, facendolo estinguere da apocalittico (vedi Apocalittici e Integrati, Bompiani 1964).
È la società in cui, come nel caso della ragazza morta qualche giorno fa, ciascuno può autoprodursi e autorappresentarsi in un momento di narcisismo, di follia, di goliardia, di esaltazione. Fermo poi pentirsene. E ritrovarsi di fronte all’impossibilità del perdono. Quello che noi, giocando con Nietzsche, potremmo definire eterno ritorno della medesima colpa. Una colpa che, in più , viene diffusa nel web, nel World Wide Web, letteralmente «rete di grandezza mondiale», rete sulla quale si naviga. A questo punto bisognerebbe domandarsi e dire: come si può navigare su una rete? la rete serve per prendere pesci, al massimo ti imbriglia e ti imprigiona.
L’internauta ha nella pornografia le proprie sirene, punte di iceberg nel corso del proprio viaggio di navigazione mentale. Iceberg esotico, multigusto e multiculturale. Iceberg disseminati a mo’ delle mine lungo il villaggio globale che è liquido (Bauman), appunto, e ha la parvenza del mare.
Bisognerebbe ragionare ancora una volta sulle parole che costellano le orbite dello schermo. Perché è nel linguaggio, ancora una volta, che si nascondono le trappole.
Navigazione; Rete; Streaming; Pirati, Explorer etc. Ed è tutto un richiamo all’acqua e al movimento.
Ma il web non è mare né, tantomeno, fiume che scorre. Non ci si bagna, come voleva Eraclito da Efeso, una volta soltanto. È stagno ed è rete, nel senso intrappolante del termine. Intrappola quelli che Umberto Eco chiamava imbecilli, nel senso latino del termine. E quindi debole, fiacco e incapace. Nel senso di chi non ha intendimento da un lato; contezza di quello che fa, conoscenza profonda (e siamo nel campo della semiotica, della filosofia, della teologia) degli strumenti che usa dall’altra. E così uno tira la rete e cade giù giù in acqua.
E una volta tuffatisi nella palude della memoria, lì si rimane. Nel bene e nel male. In barba alla retorica del diritto all’oblio. Qui piuttosto ognuno ha la sua condanna. La condanna dell’eterno ritorno dell’uguale. Che siano foto, notizie, articoli, fama o video, porno compresi sicut in web sicut in mentibus, in saecula seculorum, purtroppo.