LA MODA RENDE FELICI (almeno per mezz’ora)
Prima i salotti sanremesi della 73esima edizione, in cui a tener banco sono stati, più della musica, gli abiti indossati dai partecipanti (sul palco, in platea, in collegamento…), poi la fashion week di Milano e a seguire quella di Parigi- delle vere e proprie epopee: la moda, ci piaccia o no, fa parte della nostra attualità in un modo sempre più capillare.
Ecco allora che il testo dell’antropologo Franco La Cecla ci illumina, più delle paillettes delle redivive Paola e Chiara e degli statement scintillanti: “La Moda rende Felici- almeno per mezz’ora” (edito da Milieu) è una riflessione acuta sul sistema moda nel suo complesso e su come questa scandisca le stagioni del nostro tempo.
Ne parliamo con la giornalista di moda Giuliana Matarrese: originaria di Putignano, “cittadina conosciuta per il suo carnevale e la produzione di abiti da sposa” (NB mi piaceva molto l’affetto con cui l’hai definita in un’intervista su Grazia!), una laurea in lingue, ha scritto per le principali testate di moda (Glamour, L’Uomo Vogue), ha un profilo instagram (@giuliana_matarrese ) aggiornatissimo dove condivide in tempo reale il suo punto di vista su moda, musica, società e costume, un podcast di successo, “Eccetera- la teoria della moda”, in cui analizza l’attualità del sistema moda “dal front row, ma soprattutto dal suo backstage”, ed è contributor editor per Linkiesta e molto altro.
Giuliana, il principio fondante che guida La Cecla in questo saggio è che la moda sia per suo stesso statuto animata da due elementi di segno opposto: uno “mortifero” che la rende possibile solo in quanto prossima alla sua morte, che ne rileva il lato evanescente, effimero, l’altro “vitale” che la vuole invece come opportunità, come il soddisfacimento immediato di un desiderio o “attimo propizio del godere”. Ecco, secondo te oggi il sistema moda dove si colloca rispetto a questa ambivalenza?
La moda è impegnata da sempre in un compito impossibile: quello di rendere eterna, consegnandola ai posteri, la temporaneità, quanto di più effimero ci possa essere. Ogni collezione di ready to wear dura “l’espace d’un matin” o poco più (6 mesi). Se ci aggiungiamo una miriade di resort, couture, capsule, Cruise (le altre collezioni più commerciali o dedicate ai clienti dell’alta moda) si comprende di come si tratti di un compito destinato al fallimento perpetuo. Tra l’altro, l’utilizzo dei social che veicolano immagini e concetti con una velocità spaventevole, rende ancora più distopico un universo del quale non riusciamo mai a comprendere pienamente la profondità, ma che ci giunge a sprazzi. Incapsulare “lo stato dell’arte”, lo zeitgeist sociale, in 50 abiti è già di per sé un compito arduo con il quale la moda, oggi più che mai sta facendo i conti.
Un altro aspetto che emerge dal saggio del nostro antropologo è il rapporto strettamente interconnesso tra moda e tempo: la moda occupa il tempo e lo rende ciclico, punteggia l’alternanza delle stagioni, vi trova un ritmo, ed è in questo senso che “la moda corteggia la morte” così come “la vita corteggia la moda come ritmo, scadenza e ritorno”.
Mi è venuto allora spontaneo chiedermi cosa ne è del tempo della durata? In questo eterno ritorno che cannibalizza se stesso quanto può sperare di durare una moda: perché alcune vengono impropriamente definite “intramontabili” mentre altre per l’appunto “rendono felici solo per mezz’ora”?
Il tempo è un concetto molto controverso nella moda, che oggi non è più una costellazione di maison a gestione familiare come negli Anni 50, ma un business mastodontico operato da conglomerati finanziari, due su tutti LVMH e Kering, che dalla metà degli Anni 80 in poi, hanno comprato moltissime maison in momenti nei quali erano in crisi di rilevanza (Dior, ma anche Louis Vuitton e Givenchy, tra i primi acquisti di LVMH). L’intramontabile, come concetto, non può essere quindi applicato ad una collezione di moda del contemporaneo – appunto, diametralmente cambiato rispetto a 30 anni fa. Parliamo di “intramontabile” riferendoci a stilemi o assiomi inventati nella seconda metà del secolo scorso, dal New Look di Christian Dior con le sue Bar Jacket a Le Smoking di Saint Laurent, capi che per dei motivi (banali ma incontrovertibili ) di fattura, o disegno sulla silhouette femminile, resistono a trend o microtrend che si inseguono sulle passerelle di oggi. A rendere felici solo per mezz’ora, sono quelle collezioni create e concepite per soddisfare bisogni effimeri e che però richiedono ricompensa immediata, come tt le collezioni see now buy now ( cioè quelle che sono già acquistabili un minuto dopo aver sfilato in passerella). Purtroppo la realtà è che oggi sei “durevole” tanto quanto le immagini della tua collezione rimangono sui feed di Instagram o TikTok.
Un altro elemento sostanziale è la simbolicità della moda. Vanità, “fame di vento” (sia messo agli atti che è di Ceronetti), surrogato di una felicità inaccessibile…alla faccia dei bacchettoni incartapecoriti, ciò che sostiene La Cecla, sulla scia di Walter Benjamin, è che la moda, sebbene non faccia il monaco, nel senso che non ne cambia né le condizioni fisiche né quelle psicologiche, ha però un valore antropologico intrinseco perché “opera con l’efficacia di un mascheramento primitivo, provoca una ritualità fisica che altera i caratteri del corpo nudo”, del suo muoversi nello spazio.
Ecco a tal proposito ti chiedo: come secondo te la moda crea identità (seppur “mascherate”) e in che modo invece le distrugge omologandole? Perché la coesistenza di questi due motori è paradossale in un certo senso…
La moda è analisi dei tempi che stiamo vivendo, con tutte le contraddizioni correlate. Quando uno stilista riesce a tradurre, con il suo show – l’elemento principale per veicolare una filosofia che va ben oltre gli abiti – la sua idea di presente e la sua visione di futuro, ha centrato il punto . Tra i vari esempi possiamo citare di certo l’era di Tom Ford da Gucci, che fece spazio al momento del “porno chic”, pensato dallo stilista texano insieme alla stylist Carine Roitfeld, o la Spring Summer 1999 di Mc Queen, ispirata al movimento Arts and Crafts. Sul finale la modella Shalom Harlow, in un vestito bianco, è posizionata su una piattaforma rotante, intorno a lei ci sono due bracci meccanici che, sulle note di un inquietante brano di musica classica, le spruzzano addosso della vernice: è la violenza della tecnologia sull’uomo, una previsione che McQueen farà con 10 anni di anticipo rispetto a tutti i discorsi sul potere distruttivo dei social, alla tecnologia che ha l’unico scopo di controllarci, all’intelligenza artificiale. Purtroppo però, anche quando una collezione è così riuscita e centrata, i costi dell’abbigliamento sono talmente inarrivabili per i clienti che l’unico modo nel quale si può pensare di ottenere un pezzo di quella collezione così unica, è comprare gli accessori, borsette e scarpette che ci fanno sentire parte di quell’universo di valori nei quali ci vorremmo identificare. La moda crea un’identità (mascherata o meno) e però la rende inaccessibile, inarrivabile (dal punto di vista economico) e preferisce distillarla (o forse è meglio dire diluirla) in prodotti molto meno costosi, appunto gli accessori (i pezzi che hanno il maggior margine di ricavo per i conglomerati) che di quella filosofia e di quella identità nn conservano che dei pezzi residuali.
Segue poi un carosello di capitoli in cui si analizzano capi d’abbigliamento, stati d’animo, tendenze, archetipi e molto altro; ai fini della nostra chiacchiera ne ho scelti alcuni che secondo me toccano in modo analogo certi aspetti curiosi e anche divertenti.
Ad esempio trovo molto curioso che lo stesso capo o accessorio, che nasce in un certo momento spazio-temporale per specifiche ragioni peculiari, venga completamente rivoluzionato nel corso della storia e diventi tutt’altro, sia nell’uso che nel significato: mi riferisco al cappotto, simbolo di austera anonimità, che doveva coprire dal gelo le folle della classe povera di Mosca, poi divenuto invece baluardo di una certa borghesia europea, e poi trasformato, nella forma del loden tirolese, in quello della sinistra intellettuale ispirata dall’aristocrazia degli alpeggi; oppure viene citato il chiodo di pelle che da sempre richiama l’immaginario o del motard o del duro alla James Dean, e che nel tempo, forse anche grazie alla metafisica intrinseca della doppia pelle (il derma umano coperto da altra pelle), ha poi allargato l’orizzonte alla fantascienza (Matrix) e anche a un certo tipo di erotismo. (Seguono capitoli dedicati alle bretelle, ai tacchi, ai tatuaggi e piercing, agli occhiali da sole…)
Secondo te perché questo accade? Quali sono i meccanismi che innescano queste profonde trasformazioni?
Per quanto questa risposta possa sembrare banale, non sono gli autori della moda a “trasformare” il modo di utilizzo e lo “stereotipo” abbinato ad un certo capo ( chi lo indossa, a quale ceto sociale appartiene, in quale condizione è meglio usarlo). Se oggi, nella lavatrice perpetua di micro-trend su Instagram e TikTok ( tutto è diventato un “qualcosa-core”) chiunque indossa qualunque cosa senza avere molta consapevolezza di cosa, in realtà, sta indossando (la storia legata a quel capo, i suoi significati intrinseci etc) in passato le controculture e alcune figure di spicco della musica o della letteratura, così come i grandi movimenti politici hanno innescato, nel bene e nel male, la trasformazione di un pezzo in qualcos’altro. Seguono alcuni esempi:
I punk indossavano chocker rubati al mondo BDSM non perché nel loro intimo praticassero il bondage o si ritrovassero nelle dark room dei club di Londra, ma come elemento che, tra gli altri, voleva scandalizzare la borghesia (oppure, semplicemente i propri genitori conformisti, come accade da secoli nella storia dell’adolescenza).
Fino al 1800 e al momento della “grande rinuncia maschile” gli uomini indossavano tacchi (per svettare fisicamente e metaforicamente sugli altri) e pantaloni rosa (considerato come una variante del rosso, simbolo di potere). Con l’avvento della Rivoluzione francese e la nascita della classe borghese, tutti quei simboli che potevano definire l’appartenenza ad un particolare ceto sociale sono stati cancellati (oggi siamo all’inversione di rotta con la fluidità e con celebrities pioniere nell’invertire questo canone anti-storico, con Brad Pitt che sfoggia la gonna alle prime dei suoi film).
La polo di Fred Perry nera con i profili gialli nasce priva di qualunque connotazione politica: ciò nonostante ad oggi è diventata sinonimo dei Proud Boys, gli estremisti di destra sostenitori di Trump, che hanno messo talmente tanto in imbarazzo il brand da averlo costretto a ritirare quel modello. Perché la indossano ? Perché negli anni 70 gli inglesi del Fronte Nazionale Britannico, movimento estremista inglese afferibile al Neo-Nazismo, la indossavano. Perché la indossavano? Perché a far parte di questo movimento erano personalità che venivano dalla classe operaia, in alcuni casi punk (non sempre, il punk è associato storicamente ad un’affiliazione con le destre ma nasce come a-politico) e non avendo possibilità economiche bastanti per comprarsi delle più formali camicie, compravano le polo, più eleganti di una t-shirt e soprattutto più economiche di una camicia. Jimi Hendrix è passato alla storia per via della sua redingote da ussaro scovata in un mercatino a Camden Town. Eppure, Jimi Hendrix non aveva nulla a che fare con il rigore e l’austerità del mondo militare e indosso a lui quella giacca divenne simbolo incendiario di ribellione. A volte, insomma, convinti che questo business sia asettico e privo di interferenze e impermeabilità dall’esterno, ci dimentichiamo che il valore umano è quello che consente ad un capo di avere una personalità, un’identità, oppure di cambiarla.
C’è poi un capitolo dedicato alla fama e in qualche modo legato a quello sulla privacy: se la fama è “espandersi nelle vite dei contemporanei”, l’uscita dall’anonimato per imporsi nell’immaginario di folle di sconosciuti, così la privacy, nella doppia accezione di “personale” ma anche di “sottratto”, è la necessità di allontanarsene, di riappropriarsi per un momento dell’anonimato perduto.
Volevo chiederti, secondo te, tralasciando l’avvento dei social (instagram su tutti) che ha spalancato le porte a egocentrismi di varia natura, da dove arriva in un senso più ampio questa necessità di raccontarsi a tutti i costi? Nella moda quanto gli effetti della fama individuale (penso ai vari testimonial per esempio) hanno alimentato status e idoli? Quanto questa apparente apertura, accessibilità, maschera invece un sistema esclusivo ed elitario?
Il discorso è come al solito molto più stratificato: i testimonial ad oggi vengono scelti non seguendo logiche di rappresentazione ( sebbene alle maison piaccia raccontarci questa favola auto-assolutrice) ma seguendo logiche di mercato. I mercati più importanti per i brand sono gli Stati Uniti in primis e poi l’Asia, con Cina, Corea e Giappone. Il consumatore asiatico però, è più giovane di quello americano (i giovani cinesi sono ricchissimi, perché eredi di gente altrettanto ricca, e lo sono in un numero molto maggiore dei giovani americani) quindi si prediligono personalità nelle quali il mercato asiatico si possa rispecchiare. Inoltre, i divi del k-pop hanno un immenso seguito anche in altri paesi (in Italia, fuori dalla sfilata di Prada dell’uomo c’erano folle oceaniche per gli Enhypen, con tanto di cartelloni scritti in coreano, mentre alla sfilata di Ferragamo, l’iconica Uma Thurman poteva muoversi con grande agevolezza). Assumere dei testimonial del genere non vuol dire solo risultare più credibili e vicini al paese nel quale si vende già tanto ( e si vuole vendere di più) ma anche acquisire rilevanza tra i giovani italiani, che magari di Prada si compreranno il portachiavi e non certo il total look, ma guarderanno a quel brand con rispetto, perché capace di riconoscere l’unicità dei propri idoli.
Per rispondere però alla tua domanda, rimane l’ambivalenza della moda che ormai è pervasiva e vuole arrivare a tutti, come un fenomeno pop, o l’influenza, e però per via dei suoi prezzi, rimane ad appannaggio di pochi, pochissimi. Non è un conflitto che ad oggi è riuscita a risolvere e forse non dovrà mai farlo.
Infine, anche in vista della Fashion Week milanese alle porte, mi piacerebbe chiederti qualcosa a proposito del rapporto città-provincia (nel saggio ci sono alcuni capitoli a riguardo tra cui provincialismi): spesso chi vive nelle piccole realtà racconta di guardare alle città con un misto di curiosità e paura, molti hanno rotto gli indugi e sono partiti alla volta di nuove avventure e opportunità, in primis lavorative; al contrario chi nasce e cresce nelle metropoli sogna una dimensione “più a misura d’uomo”, più sostenibile, e nell’era post covid sono in molti ad aver abbandonato lavori e ritmi di vita estenuanti per realizzare il sogno bucolico di una vita.
Questa transumanza di anime credi sia lo specchio diretto dei tempi (in tutti i suoi aspetti politici, economici, sociali), e quindi in un certo senso una moda, tendenze circostanziate, oppure ha a che fare con un sentire atavico tipicamente italiano? Se da un lato sentiamo parlare di città sostenibili, di democratizzazione della cultura e slogan che promettono la riattivazione degli ascensori sociali, nello scarto con la realtà una sinistra sensazione di apocalisse sembra invece essere sempre più comune: il sistema moda che aderenza ha con questo reale?
La moda, come abbiamo detto, è in mano a conglomerati finanziari talmente giganteschi che gli abiti che vediamo in passerella sono solo una delle sue tante “emanazioni”. Guidata dalle logiche dei conglomerati – che si imbarcano in progetti di charity perché vicini ai loro valori ma anche perché sono detraibili dalle tasse – la moda ha la possibilità di fare davvero qualcosa per cambiare la situazione. Tra LVMH e Kering, ma anche Maison Valentino, ci sono centinaia di progetti dediti a valorizzare realtà marginalizzate, ai bordi della grande città, con speciali programmi di ricerca talenti o di promozione della cultura. La moda però non può sostituirsi all’operato politico, e non dovrebbe neanche: è un ente privato, non pubblico. I progetti davvero autentici in questo senso possono essere solo progetti anti-sistemici (da Magliano, che parla costantemente di provincia, al collettivo Vitelli, ad esempio). Quando parli di sinistra sensazione di apocalisse credo tu faccia riferimento principalmente a Balenciaga e al suo direttore creativo, Demna, che ha mandato in scena alcune delle sfilate più inquietanti – perché vere – degli ultimi anni. Un processo che però, mi duole avvisarti, è già concluso. Con lo scandalo relativo alle foto dei bambini con gli orsacchiotti con i choker, e la ritorsione social con la shitstorm correlata, il brand e il suo creatore hanno subito un importante colpo di credibilità e lo stesso Demna ha ammesso in una sorta di intervista espiazione con Vogue che non gli interessa provocare ma vuole tornare solo a fare abiti. E infatti la sua ultima sfilata di Parigi è stata una passerella bianca con modelle che sfilavano sotto una musica anonima. La moda ha una funzione politica importante a mio avviso: è la bussola che racconta dove stiamo andando. In una società che è divenuta reazionaria, talmente facile all’offesa da sopprimere sul nascere qualsiasi tentativo di visione “laterale”, analfabeta al punto da non sapere leggere le complessità se non semplificandole all’estremo, non è però più possibile esercitare il proprio diritto all’ autorialità e raccontare questa era difficile e complessa, nella sua gravità. Dalla moda ci si aspetta vestitini, borsette e gratificazione effimera, nulla di più. Eppure, questo mondo ha tutt’altre possibilità. Toccherà però a noi essere pronti a lei, e non certo il contrario.