di Andrea Pavoni
Fino alla fine del XIX secolo, lì c’era il mare. Rio de Janeiro, a cidade maravilhosa, è venuta fuori da un corpo a corpo con la natura circostante, estirpando foreste tropicali, spianando colline, lastricando l’oceano. Lo mostra una mappa del 1820, in cui spiccano due nomi: Valongo e Paço. Davanti al paço, o palacio imperiale, in quella che oggi è Praça XV, attraccavano le barche che trasportavano gli schiavi dall’Africa. Nel 1774 una legge stabilisce che, una volta arrivati, fossero trasferiti nella spiaggia di Valongo, per mezzo di piccole barche, e poi direttamente nel molo, il Cais do Valongo, costruito pochi decenni dopo. Ufficialmente, per motivi sanitari. Tuttavia, non sembra fossero tanto le malattie quanto la visione di quel lento flusso di corpi emaciati, stravolti dal terribile viaggio transoceanico, avanzare come zombie per le vie del centro, che mal s’adattava all’immagine moderna ed europea che si voleva Rio incarnasse.
Oggi, arrivati all’aeroporto internazionale Galeão, nell’Ilha do Governador, si è avvolti immediatamente dal puzzo della Baia di Guanabara. In quelle acque finisce, non processato, circa un terzo di tutti gli scarichi di Rio de Janeiro, e la maggior parte di quelli del complexo da Maré, un agglomerato di favelas che guarda l’aeroporto dall’altra parte dell’autostrada che lo collega al centro della città. Dalla strada, però, Maré non si vede. In Giugno il comune ha costruito un muro, e lo ha decorato con i poster di Rio2016. Ufficialmente hanno fatto sapere che si tratta di una barriera antirumore. Evidentemente si aspettano di esser ringraziati. Difficile che i favelados, dopo decenni di sistematico abbandono, e due anni di violenta occupazione militare delle truppe speciali di polizia, con tanto di carrarmati, credano a quest’improvvisa apprensione istituzionale per i propri timpani. Qui la polizia ha ammazzato le ultime tre persone il 16 Agosto, nel pieno dei Giochi. Più che l’udito sembra sia la vista a preoccupare, la vista appena usciti dall’aeroporto delle geometrie informali della favela, che mal s’adatta, pare, all’immagine di città moderna e internazionale che la Rio delle Olimpiadi deve incarnare.
Nel 1831 il Cais do Valongo è sotterrato. Sopra di esso, cancellandolo opportunamente dalla memoria carioca, è eretto il Cais da Imperatriz, un nuovo molo imperiale destinato ad accogliere l’imperatrice Teresa Cristina, in viaggio da Napoli per sposare dom Pedro II, ultimo imperatore del Brasile. In quell’anno, dopo decenni di pressione inglese, è promulgata la Lei Feijó, che proibisce il traffico di schiavi. Non lontano da Rio, il traffico continuerà fiorente fino a una nuova legge che, nel 1888, lo eliminerà definitivamente. La Lei Feijó diverrà la proverbiale lei pra inglês ver, legge il cui scopo è di ‘esser vista dagli Inglesi’, oggi espressione idiomatica brasiliana che indica qualsiasi misura, iniziativa o azione che apparentemente risolve un problema mentre, in realtà, lo lascia inalterato nelle sue dinamiche strutturali. Come direbbe Tomasi de Lampedusa, ‘se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi’.
Uno studio recente ha calcolato che dei quasi cinque milioni di schiavi che arrivarono in Brasile, quasi due milioni passarono per lo stato di Rio, il 20% dell’intero traffico delle Americhe. Di questi, si pensa, tra 500.000 e un milione passarono per Valongo, per poi finire lì dietro, nel mercato degli schiavi, dove oggi sta Rua Camerino. Durante le Olimpiadi la percorro, finendo dritto al Palco Amanhã, uno dei tre palchi del Boulevard Olimpico, ‘il più grande live site della storia dei Giochi Olimpici’. Cammino a lungo avanti e indietro in questo spazio enorme, come me migliaia di persone, a guardare gli eventi sportivi in diretta sui maxi-schermi, mangiare, bere, scattare foto e partecipare, come leggo nel sito, ad ‘una maratona di divertimento e conoscenza … con più di mille concerti ed attrazioni culturali e sportive’. Nella mappa interattiva del Boulevard, il Palco Amanhã si trova al numero 4. Il 21 Agosto, chiusura dei Giochi, qui c’è il Baile do Viaduto de Madureira, uno dei più antichi di Rio de Janeiro e, come scrivono, ‘patrimonio immateriale della città, parte della cultura nera dentro e fuori dello stato di Rio de Janeiro’. Amanhã, domani, è anche il nome del museo progettato da Santiago Calatrava, che nella mappa appare in basso, vicino al numero 17, proiettato verso il mare.
Il Museu do Amanha è il fiore all’occhiello del grandioso progetto di ‘rivitalizzazione’ del porto, iniziato nel 2011 con l’obiettivo di prepararlo ad accogliere Coppa del Mondo ed Olimpiadi. Il progetto Porto Maravilha, il più grande partenariato pubblico-privato (PPP) del paese, è strutturato attraverso i CEPAC, certificati di potenziale addizionale di costruzione. Comprandoli, i privati acquisiscono diritti di costruzione eccezionali rispetto alle leggi di zonizzazione urbana in vigore. In cambio, i privati stessi devono occuparsi dei servizi pubblici nell’area. Per alcuni, idea geniale per migliorare lo spazio urbano delegando i costi ai privati. Per altri, ennesima, ingegnosa strategia di svendita e privatizzazione del suolo pubblico.
L’argomento è complesso, ma vale la pena spendere altre due parole sulla logica perversa che lo alimenta. I CEPAC sono titoli valutati in borsa che rappresentano il potenziale di costruzione di un’area. Nel caso di Porto Maravilha, la totalità dei CEPAC son acquisiti dal Fondo Pensione Federale dei Lavoratori, che poi li rivende ai privati interessati a costruire nell’area. In altre parole, per evitare di perdere i soldi dei lavoratori investititi nell’operazione, il Fondo ha bisogno che i CEPAC valorizzino, e per questo deve venderli alle imprese private. Ovvero, come spiega il professor Orlando Santos, qui la privatizzazione e la commercializzazione diffusa di suolo e servizi pubblici non sono una possibile conseguenza del processo, ma una sua esigenza strutturale.
Pochi mesi dopo l’inizio dei lavori, il passato soppresso quasi 170 anni prima riemerge. Durante gli scavi cominciano ad apparire amuleti, scarpe, bracciali, collane, bottoni, oggetti di culto e ossa, parecchie ossa umane. È il Cais do Valongo, con le sue storie e i suoi morti, a riaffiorare beffardo a qualche centinaia di metri dalle impalcature dove sta prendendo forma il Museu de Amanhã. Levi-Strauss ne avrebbe sorriso, amaro. Aqui tudo parece que é ainda construção mas já é ruína – ‘qui tutto sembra ancora in costruzione, ma è già rovina’ – cantava Caetano Veloso, citando il famoso antropologo.
L’area in cui sorge il Porto Maravilha fu creata all’inizio del ‘900 quando il sindaco Francisco Pereira Passos, per rendere Rio de Janeiro una città moderna, internazionale e futura, diede inizio alla sua riforma più traumatica e ambiziosa. Con l’intenzione di creare l’ennesima copia di Parigi, qui la ‘Parigi dei Tropici’, furono allargate le strade, spianati interi morros (colline), sottratto spazio al mare. All’epoca la maggior parte dei poveri di Rio si assiepava nei cortiços, grandi case popolari a densità enorme, nei cui appartamenti vivevano famiglie intere stipate in piccole camere. Le visioni futuriste di Pereira Passos si concretizzarono nella distruzione dei cortiços, igienicamente, esteticamente e logisticamente incompatibili con la cidade de amanhã che Rio si apprestava a diventare, simbolo del Novo Brasil pronto ad uscire dalla sua dimensione di paese inferiore. Costruir um Mundo Novo, più di cent’anni dopo, è lo slogan di Rio 2016 e l’incipit del suo manifesto.
Il Parco Olimpico non è in centro, ma nella Barra de Tijuca, un quartiere residenziale di Rio de Janeiro a ovest di Ipanema. Costruita negli anni ’70 da un progetto di Lucio Costa, la Barra de Tijuca voleva essere la ‘Miami dei Tropici’, zona esclusiva che, nelle parole di Gonçalves Dias, ‘incarnava l’ideale di cancellare e dimenticare il passato della città, proiettandola verso il futuro’. Per le Olimpiadi è stata costruita una nuova linea della metropolitana, che oggi la collega a Copacabana, Leblon e Ipanema, passando per São Corrado e Lagoa. Nella mappa della metro la linea quattro è di colore giallo oro, appropriato alle zone che collega, le più ricche della città, e del paese, lasciando gran parte della zona Nord, la più povera, ancora senza metropolitana ed in balìa di un sistema di treni ed autobus vetusto e congestionato.
Nella zona del porto sono inclusi i quartieri di Gamboa, Saude, Santo Cristo, la Pequena Africa, dove agli inizi del ‘900 gli africani emancipati provenienti da Salvador de Bahia gettarono le basi per la nascita del Samba. Lì vicino sorge un colle, il Morro da Providência, già conosciuto come Morro da Favela. Questo colle fu la prima favela di Rio, occupata nel 1897 dai reduci della Guerra di Canudos e dagli sfollati che, demoliti i cortiços, cominciarono a dar vita a quel fenomeno di urbanizzazione informale che dal colle trarrà il nome.
In un recente TED Talk il sindaco attuale di Rio, Eduardo Paes, osserva che le favelas non sono necessariamente un problema ma anche, a volte, una soluzione, ‘a patto di occuparsene con politiche pubbliche’. In effetti, in un libro seminale sull’evoluzione urbana di Rio, il geografo Mauricio Abreu spiega che le favelas furono eccome una ‘soluzione’, sin dall’inizio. Fu grazie a loro, infatti, che Rio de Janeiro si convertì da città schiavista a città capitalista, da una parte escludendo una grande fetta dei suoi abitanti da servizi minimi come alloggio, trasporto, educazione, sicurezza e salute, dall’altra continuando a sfruttarli come manodopera a basso costo.
Il Porto Maravilha oggi, seppur omologato alla noiosa estetica globale dei waterfronts urbani, è innegabilmente migliore di come fosse pochi anni fa, quando giaceva abbandonato, pericoloso, sventrato da un enorme viadotto. E sono numerosi i cartelloni che lo ricordano, mostrando orgogliosamente il prima, e il dopo. Camminando a lungo per il Boulevard non riesco a scorgere traccia di quell’altro prima, quello più remoto, quanto questo era il centro di uno dei più grandi genocidi della storia. Le informazioni son minime, frammentarie, praticamente introvabili. Nella sua ferma intenzione di proiettarsi verso amanhã, il porto non ha tempo di soffermarsi sulla complessità di un passato scomodo, che resta seppellito nei recessi della memoria carioca.
Boulevard Olimpico, prima e dopo e i lavori ‘rivitalizzazione’ [foto: Andrea Pavoni]
Nello stesso anno in cui cominciavano i lavori del porto di domani, e riemergeva quello di ieri, l’artista urbano francese JR riceveva il TED Prize, che premia annualmente un ‘leader dal desiderio creativo ed ambizioso di provocare un cambiamento globale’. Con esso, un milione di dollari, e la disponibilità delle risorse e della expertise della TED community. Uno dei suoi progetti più famosi, WOMEN ARE HEROES, ha luogo tra il 2008 e il 2009 proprio nel Morro da Providência. Lì, JR incolla nelle facciate delle case gigantesche immagini di volti e occhi di donne della favela.
Nel discorso di accettazione del TED prize, JR, come si confà ad un TED talk, è visionario ed inspiring. ‘In some ways, art can change the world – dice – art can change the way we see the world’. Nel suo, di TED Talk, il sindaco Paes esclama: ‘I really do believe that mayors have the political position to really change people’s lives.’ Nel manifesto dei Giochi Olimpici 2016 è scritto che ‘poiché la vita è movimento, passione, trasformazione, uniti, trasformiamo il mondo.’ Bisogna che tutto cambi, insomma.
Il nuovo progetto globale di JR si chiama INSIDE OUT. L’idea è semplice. Si tratta di stampare gigantografie di primi piani di persone comuni, e poi incollarle in giro per il mondo. Durante i Giochi, come parte del nuovo schema di residenza artistica delle Olimpiadi, INSIDE OUT è nel Boulevard Olimpico. Sta al numero 15 della mappa interattiva. È nel Porto Maravilha, pare, che il potere di cambiare la vita delle persone di sindaci e artisti trova il suo luogo ideale di convergenza. Vedo un photographic truck in cui i visitatori possono farsi fotografare. La foto è poi stampata in manifesti giganti che JR e i suoi assistenti incollano lungo il viale. Ci passo davanti e vedo gli assistenti lavorare con i primi manifesti, mentre un brasiliano eccitato fotografa la sua stessa faccia mentre viene incollata al muro. A un certo punto arriva JR, con il cappello, gli occhiali e la giacca che indossa sempre.
JR non se la tira per niente, scherza con tutti, sopporta paziente le richieste di foto, selfie, interviste. Alle domande banali di un giornalista della NBC, risponde snocciolando un po’ dei luoghi comuni del suo TED Talk. Il succo è che l’arte è in grado di colmare le differenze, unire ed attivare le persone. Dice anche che è molto contento di esser tornato a Rio, e specialmente di star qui, a un passo dal Morro da Providência, così da poter incontrare di nuovo i soggetti del suo progetto passato e di coinvolgerli in quello in corso. Il giornalista della NBC sembra il protagonista della pubblicità della Marlboro. Sorride con la sua mascella gigante, esclamando ‘great’ e ‘awesome’ ad ogni piè sospinto. Mi avvicino. Sono curioso di sapere cosa pensi JR delle controversie attorno alle Olimpiadi. Non m’interessa chiedergli delle circa 77.000 persone rimosse, l’aumento della violenza della polizia nelle favelas, la speculazione immobiliare, lo sviluppo asimmetrico dei trasporti e le varie promesse non mantenute, come quella di depurare la baia di Guanabara. La mia domanda è più specifica.
JR intervistato dal giornalista della NBC davanti al suo INSIDEOUT project [foto: Andrea Pavoni]
Il Morro da Providência è situato nel cuore del Porto Maravilha, che come un recente report mostra, ha già causato la rimozione, più o meno forzata, di circa 535 famiglie, con almeno 400 sotto la minaccia dello stesso destino. Solo per la costruzione di uno dei tanti elementi iconici del progetto, la teleferica che collega la cima del Morro alla stazione Central do Brasil, 140 famiglie son state rimosse, un quarto di quelle previste dal piano originale, arginato solo dalla resistenza fisica, mediatica e legale degli abitanti stessi. La Praça Américo Brum, centro storico, culturale e comunitario della favela, ha dovuto far spazio alla stazione della teleferica. A parte i costanti problemi tecnici e i bizzarri orari di funzionamento, si calcola che la teleferica serva solo a un quinto della comunità locale. Tuttavia, indubbia è la sua efficienza iconica e turistica: provvedere al secolare progetto di costruzione di Rio come cidade futura, e permettere ai turisti un volo ravvicinato sopra la favela senza doverne negoziare a piedi i vicoli ‘pericolosi’.
Nel sito di Porto Maravilha si legge che nelle cabine della teleferica sono stampati disegni degli alunni del V anno della Scuola Municipale Francisco Benjamin Gallori, in maggioranza abitanti della favela stessa. Le loro 67 illustrazioni sono scaturite nella mostra A Região Portuária que eu gosto, l’area portuaria che mi piace. Peccato che nessuno abbia posto la domanda agli abitanti dell’area, sistematicamente esclusi dalle procedure di consultazione. Non è certo un anti-progressismo congenito che li spinge a protestare, come invece il sindaco e i suoi compari hanno osservato con sprezzo. Piuttosto, è la mancanza di trasparenza e di procedure democratiche, le rimozioni arbitrarie e illegali che hanno devastato la vita di intere famiglie, incluse quelle che vivono da anni nell’ansia di esser rimosse. Infine, è il peso di tutti i problemi ben più pressanti, che i soldi dedicati alla teleferica avrebbero permesso di cominciare ad affrontare, e che invece rimangono pressoché inalterati: i servizi igienici di base, la sanità, l’educazione, gli asili…
Un assistente di JR incolla un manifesto lungo il Boulevard. Il palazzo celeste, alla sua destra, è il Casarão Azul, locale occupato i cui residenti, come negli altri palazzi della zona, sono stati rimossi nel 2009, come spiega Roberto Santos Oqg, nel documentario Contagem Regressiva. Nei palazzi abbandonati dell’area vivevano migliaia di persone. Sette anni dopo averli sgomberati, i palazzi restano vuoti, in attesa che il loro valore immobiliare salga. [foto: Andrea Pavoni]
Difficile ignorare la contraddizione avviluppata in quest’assemblaggio di colla, facce, muri, buone intenzioni… Non capisco se JR sia più cinico di quello che sembra, o più ingenuo. Da anni collabora con la comunità del Morro, ad esempio contribuendo alla creazione della Casa Amarela, un centro socio-culturale nel cuore della favela. C’è una foto, caricata poco più di cinque anni fa nella sua pagina Facebook, in cui è riportata una frase di Rosiete M, abitante del Morro, che riferendosi alle foto del suo progetto dice: ‘noi non siamo invasori … abbiamo pieni diritti su questa terra davanti alla legge. Queste foto rappresentano le nostre vite, che sono vite che vogliamo mantenere, noi non siamo solo il numero che la Secretaria Municipal de Habitaçao ci assegna’. Questa è la procedura. Senza consultare o informare preventivamente i residenti, addetti del comune dipingono nei muri delle case destinate alla demolizione la scritta SMH, accompagnata da un numero. Una mattina ci si sveglia e si scopre di avere la casa marchiata, condannata.
Cosa ne pensa, gli chiedo, che il progetto di Porto Maravilha, di cui il Boulevard Olimpico fa parte, e che INSIDEOUT sta di fatto contribuendo a promuovere, abbia causato tante sofferenze, fisiche, sociali, psicologiche, proprio agli abitanti del Morro da Providência? JR mi guarda con complicità, come se non si aspettasse la domanda, ma avesse comunque pronta la risposta. Ho ragione, risponde, ci son inevitabilmente problemi, ci son sempre problemi quando si agisce nello spazio urbano, tutto è sempre molto complesso. Eppure, prosegue, l’arte non può fermarsi ma deve andare avanti, continuare a produrre, pensare positivo. Le sue tre formule son semplici e precise come slogan pubblicitari: think positive, move forward, keep doing things. Keep art moving, insomma, così da produrre quel cambiamento nella percezione delle persone, da cui deriva il suo potere di cambiare il mondo. In altre parole, JR mi sta dicendo che lui, in quanto artista, non ha tempo e modo di affrontare tutte le complessità che si intrecciano con ogni suo intervento urbano. Altrimenti, l’arte rallenterebbe fino a fermarsi e, di conseguenza, si deprimerebbe assai.
Lo saluto e continuo a camminare per il viale, fino ad arrivare al gigantesco murale di Eduardo Kobra, artista urbano locale. Il murale si chiama Etnias. Sta al numero 14 della mappa interattiva. È bellissimo. Rappresenta cinque facce indigene, una per continente. L’intenzione, nelle sue parole, è di mostrare come siamo ‘tutti connessi, tutti uniti’, ed è parte del progetto Olhares da Paz, visioni della pace. ‘We artists – dice Kobra in un’intervista – cannot be silent and close our eyes to the issues that are going on around us and I believe that, by using public space and and talking openly about these issues, we can really create awareness in one person, one neighborhooud, one city or one country’.
Kobra non c’è. Peccato. Gli avrei chiesto non delle popolazioni indigene del mondo intero, ma della sorte di una precisa tribù indigena, quella che ha occupato per sette anni la sede del vecchio Museu do Indio facendone un villaggio indigeno urbano, l’Aldeia Maracanã, sgomberata con forza nel 2013 durante i lavori per rendere il Maracanã pronto ad ospitare Coppa del Mondo ed Olimpiadi. O, ancora, che tipo di ‘consapevolezza’ abbia intenzione di produrre nelle migliaia di squatters sgomberati dagli stessi palazzi che ha appena finito di dipingere. Secondo Josephine Berry-Slater ed Anthony Iles, mentre i processi di rigenerazione urbana provocano spesso la progressiva espulsione, diretta o indiretta, delle comunità locali, il ruolo che vi svolge l’arte pubblica è sempre più quello di ‘orchestrare farseschi spettacoli ufficiali di armonia sociale’. Ad alcuni, la verve polemica di quest’osservazione parrà eccessiva. Eppure, davanti agli splendidi volti pitturati da Kobra, non riesco a pensare a commento più appropriato.
Parte del murale Etnias, lungo il Boulevard Olimpico [foto: Andrea Pavoni]
Riguardo il TED talk di JR. A un certo punto dice che non è importante di chi siano le foto, chi le faccia, chi le incolli, ma cosa queste facciano, ciò che esse affermino nel luogo in cui sono incollate. Vero. Non importa chi faccia o possegga la foto, non importa se queste siano o meno arte, belle o brutte, categorie sfuggenti, contingenti. Non importa neanche se l’arte in questione sia legale o meno, autorizzata, indipendente, supportata o no da una struttura istituzionale. Conta cosa l’arte faccia nel luogo in cui accade. Gli interventi urbani non si applicano esternamente sulla città, come un poster sopra un muro, ma ne penetrano in profondità le logiche, le norme, i ritmi, le atmosfere. Intersecano, influenzano e, a volte, riarticolano le relazioni ontologiche di una città, le sue strutture astratte e realtà concrete. Sono queste, più di ogni altra cosa, ad esserne il materiale. Continuando a camminare son finito fuori dal Boulevard. Attraverso varie strade in condizioni precarie. A pochi metri da lì ci son buche, lavori in corso abbandonati, cavi elettrici che penzolano fino alla strada, rifiuti. Un paio di segnali, divelti, giacciono orizzontali. Aqui tudo parece que é ainda construção, mas já é ruína.
Muri bruciati, buche, lamiere abbandonate, rifiuti vari a pochi metri dal Boulevard Olimpico [foto: Andrea Pavoni]
Penso al mix di estetica e buone intenzioni che traspare nelle parole di JR e Kobra, e di come siano compatibili, anzi, corrispondenti a quelle del sindaco Paes e di migliaia di altri discorsi ufficiali di promozione e giustificazione di simili progetti di ‘rivitalizzazione urbana’. Forse, anziché continuare a muoversi, all’arte urbana gioverebbe fermarsi un poco a riflettere, a riconsiderare il primato che assegna a priori ad una estetica urbana superficiale, e ancor più la presupposizione che da essa, inevitabilmente, derivino benefici sociali incontestabili. ‘La città per me è come un playground’, sento JR che lo ripete al giornalista della NCB. Sì, ma prima di esserlo per lui e per qualsiasi altro artista urbano, lo è per il capitalismo, playground del processo globale di urbanizzazione neoliberale, con le sue logiche violente, diseguali, speculatorie, discriminatorie ed esclusive. Un processo che non può certo essere ignorato perché troppo complesso, deprimente, inevitabile…
D’accordo, tener conto delle relazioni profonde che ogni intervento urbano stimola, provoca e riarticola non è cosa semplice. Richiede tempo. Anche a costo di rallentare il passo, produrre di meno, pensare un po’ meno positivo e, magari, un po’ più strategico. Keep art moving? Non necessariamente, specie se il movimento è quello tumultuoso del vortice di speculazione urbana in cui l’arte è sempre più risucchiata. Gli artisti urbani non hanno certo la responsabilità di cambiare da soli il sistema. Tuttavia, hanno una chiara responsabilità rispetto allo spazio in cui scelgono di intervenire. Responsabilità che non può essere abdicata in nome di una sua supposta superiorità o indipendenza, né subordinata alla produzione di un effetto estetico superficiale e conchiuso in se stesso.
Guillame Désanges osserva che nello spazio pubblico l’arte non può che essere perturbante. Per il solo fatto di aver luogo, l’arte urbana dissesta ad un tempo arte e urbano: i tempi, spazi e mercati della prima, le convenzioni, aspettative e routine del secondo. Eppure oggi, più che perturbare, la gran parte dell’arte urbana è sempre più pacifica e pacificata, oggetto privilegiato di quell’appetito insaziabile per l’estetizzazione, conseguenza inevitabile di decenni di società dei consumi, che modella lo spazio urbano contemporaneo. Qui si inserisce la riflessione provocatoria di Suhail Malik che, in un saggio esplicitamente intitolato Reason to Destroy Contemporary Art, lamenta la priorità che l’arte contemporanea assegna all’esperienza sensoriale e fenomenologica. In altre parole, la presupposizione dell’esperienza estetica come sola condizione e unico orizzonte dell’arte.
Al contrario, Malik propone un’arte realista (nel senso indicato dalla recente corrente filosofica del realismo speculativo), da cui esperienza ed interpretazione soggettiva siano espunte. Un’arte indifferente all’esperienza estetica: arte della conoscenza razionale, in altre parole arte che, per esser tale, non abbia bisogno di esser esperita, ma solo conosciuta. La provocazione di Malik è assolutamente puntuale e applicabile al campo dell’arte urbana. Non tanto, penso, nel senso estremo di annullamento dell’estetica tout court. Piuttosto, come tentativo di emanciparla dalla sua perniciosa riduzione ad esperienza sensoriale e soggettiva e, di conseguenza, dalla sua banalizzazione a mero ornamento urbano o, nelle parole di Malcolm Miles, illusoria soluzione cosmetica a problemi urbani profondi e strutturali, che in quanto modo contribuisce a sminuire, nascondere o, peggio, naturalizzare.
Rimanere impressionati davanti al murale di Kobra o alle sequenze di volti di JR è comprensibile, per certi versi inevitabile, quanto esser travolti dall’atmosfera di entusiasmo, comunione, festa e pathos dei Giochi Olimpici. Eppure, allo stesso modo in cui negare il fascino millenario delle Olimpiadi e il potere affettivo della loro atmosfera richiederebbe una certa dose di disonestà, o mediocrità, permettere a queste sensazioni di cancellare il necessario discorso critico sugli effetti, spesso devastanti, che questo mega-intervento urbano produce sulla città ospite, sarebbe ben più deplorevole. Idem nel caso dell’arte urbana, che non può e non deve ridursi ad una questione di gusto, di bello, di orpello. Il punto insomma, sarebbe quello di rivendicare un’estetica non appiattita sul gusto individuale, o comune, non meramente fenomenologica, ma pienamente ontologica.
Un’arte urbana in grado di diventare, come suggerisce l’artista e filosofo brasiliano Nelson Brissac Peixoto, non un’appendice decorativa dei drammatici processi di urbanizzazione in corso, ma un campo di messa in discussione e riarticolazione degli stessi. Non si tratta di discutere se l’arte urbana debba essere gratis o no, istituzionale o no, legale o no, autorizzata o no… tutte dicotomie che, se accettate a priori, significano poco e moralizzano tanto. Piuttosto, come suggerisce Sven Lütticken, è arrivato il momento di passare dall’accontentarsi della forma finita dell’arte – sia questa il suo oggetto finale, il processo partecipativo di creazione, o entrambi – all’affrontare la matrice di questa forma, le sue condizioni di possibilità. È arrivato il momento, per l’arte, di farsi veramente urbana.
Scultura di ghiaccio con la parola legado, riferimento alla legacy dei Giochi Olimpici, apparsa il 16 Agosto nella spiaggia di Copacabana [Foto: Alexandre Van de Sande/Facebook]
Per maggiori info su JR, date un occhio alla sua pagina su Artsy, cliccando qui.