di Antonio Cipriani
14 agosto. Sottile perversione camminando senza meta sulle strade di una vigilia di ferragosto a Milano. Strisce d’ombra, deserti assolati. Zigzagando di lentezza nel passo, ma nella mente una lepre. Tagliando il deserto bruciante alla ricerca del segno scuro sull’asfalto percorro i marciapiedi disegnati dalle serrande finalmente tutte chiuse. Alcune chiuse con bellezza dipinta, raccontano la storia dell’Isola. Altre scarabocchiate dai ragazzini, altre ancora orribili dipinte su commissione dai commercianti: il barbiere un pettine e una capigliatura, la pelletteria una valigia, il sarto le forbici, il ristorantino un cameriere sgraziato, disegnato da un pittore che deve odiare il ristoratore più di ogni altra cosa.
Il venticello arriva da est e per prenderlo in faccia devo stringere gli occhi. Giacché ci sono evito le serrande oscene. Mi concentro su altre sensazioni. Sento la musica che sale nella testa, come fosse un ricordo che spunta fuori come una molla rotta da un divano: oggi è domenica domani si muore/ oggi mi vesto di seta e candore/ oggi è domenica domani si muore/ oggi mi vesto di rosso e d’amore.
Mi torna in testa questo canto dei Csi, la voce di Giovanni Lindo Ferretti si alza come se camminassi a mezzo metro da terra e celebrassi con questa mia deriva d’agosto la resistenza, il pulsare nel sangue di antiche vocazioni. Non so perché, forse per questo incedere barbaro tra i segni della civiltà abbandonata dai civili suoi membri.
Tra gli abbandoni più significativi il camion della pulizia delle strade dell’Amsa, parcheggiato sulle strisce davanti alla sala giochi. Prima considerazione: puliscono le strade anche di domenica mattina, vigilia di ferragosto, con la città deserta. Seconda considerazione: le sale giochi rappresentano l’unico segno di vita sociale.
Nelle strade deserte le voci risuonano. Idiomi sconosciuti si mischiano a dialetti del sud. I milanesi a Milano nel fine settimana non rimangono mai. Il week end è sacro. Figuriamoci nel fine settimana infinito di ferragosto quando anche Marco del bar di Porro Lambertenghi, angolo Pollaiuolo, chiude. Ed è un evento raro. Riposa a capodanno e a ferragosto.
“La città semivuota mi pareva deserta. C’erano gli alberi che bevevano il sole, c’era un grande silenzio. A volte, c’era una piazza che mi attendeva, con le sue nuvole e con il suo calmo calore. Nessuno l’attraversava, nessuna finestra s’apriva, ma si aprivano gli sfondi delle vie deserte in attesa di una voce o di un passo”. (Cesare Pavese).
Solo che qui gli alberi non possono bere il sole, perché in piazza Archinto li hanno potati così selvaggiamente che l’ombra che proiettano è quella di pochi rami. E laddove c’era un giardino orizzontale ora c’è un bosco di cemento verticale e poco più in là stanno costruendo un boschetto circolare. Roba inutile, disegnata per dare ordine al disordine del cuore, per impedire visioni mistiche e restare con i piedi per terra nel rendering dell’architetto. Tutta roba che non disseta.
Sugli scalini di Isola libri si accende un dibattito che si può ascoltare a cento metri di distanza, tanta l’enfasi e la partecipazione. Tema: l’Isis. Svolgimento: come difendersi, come sconfiggerlo, come far capire il problema agli intellettuali che non capiscono un ciufolo. Proyagonisti: Michele, che ha in mano una birra, una signora che ha un sacchetto di stoffa con dentro libri, un anziano che accarezza il cane. Michele è l’oratore sicuro che sa come fare, la signora anche per il possesso dei libri è “l’intellettuale che non sa com’è la vita” (Michele dixit), l’anziano scuote la testa, è il rappresentante della maggioranza silenziosa che annuisce. Alla fine l’intellettuale è costretta a capitolare e ad accettare la posizione furibonda di Michele che declama, non discute. Quelli laggiù, dice, sono senza identità da sempre, gli antichi romani gli hanno trombato mogli e sorelle (accompagna la metafora musicale con un gesto del pugno chiuso, come volesse spingere in basso ripetutamente la coulisse del trombone), quindi a loro ancora rode un po’. Ora sono tra noi. Intercalando la narrazione con: ma voi intellettuali del cavolo non li vedete i telegiornali? Che fare: qualcosa che somiglia a una soluzione finale, mi pare di capire. L’anziano del cane dice di sì. L’intellettuale sconfitta, sorride gentile e non si capisce bene che cosa risponda. L’enfasi di Michele, seduto sul gradino di Isola libri, non ammette contraddittorio.
Più il là, seduti sullo scalino del tatuatore chiuso Armando lo storico del quartiere chiacchiera col suo amico. I toni sono più bassi, non parlano di Isis ma di belle donne, con competenza ottuagenaria. Armando racconta di essere appena stato in piazza Segrino a vedere se le corone ai caduti della resistenza sono a posto. L’aiuola ospita il monumento e ogni anno l’Anpi e l’associazione dei ragazzi di don Bussa vanno a depositare le corone il 25 aprile. Ma per Armando è liberazione tutto l’anno, così ogni settimana va a controllare il monumento alla resistenza. Ignora il fatto che il suo monumento, con tanto di corone, è diventato nel gioco dei pokemon un pokéstop. Meglio così, lo ignoravo anche io serenamente prima che qualcuno me lo rivelasse dicendomi che anche la tomba di Gramsci è un pokéstop. Monumenti di realtà aumentata.
Sta crescendo in me una certa passione per questa deriva musicale, poetica, di metafore ricchissime. La maggioranza silenziosa saluta e si allontana col cane. L’intellettuale saluta e se ne va coi libri. Michele saluta, trionfa e si beve la birra. Il camion dell’Amsa parte sbuffando. Due turiste altissime e bionde trascinano i trolley rumorosamente. Non c’è neanche Cristina, la giovane zingara bella ed elegante che ogni giorno è davanti al supermercato. Qualche giorno fa ha detto che sarebbe partita per la Romania, non sapeva se e quando sarebbe tornata. Armando si ritira, troppo caldo.
Oggi è domenica, e domani si muore. Mi viene in mente che il canto supremo che si leva nella testa si poggia su quattro versi di Pasolini. Oggi è domenica/ domani si muore/ oggi mi vesto/ di seta e d’amore.
15 agosto. Il cuore palpita nel silenzio della città. I balconi, i profili dei palazzi diventano torri merlate di ascose fortezze. La lunga attesa diventa poesia a ogni passo. Respiro l’aria della libertà, bollente, da passi impossibili da rallentare, senza idea di dove possano condurre se non all’interno di un mistero. Che poi è lo stesso che attraverso quando si chiudono gli occhi e si afferrano i fili penzoloni del tempo, delle persone che hai lasciato andare, delle fantasie che non immaginavi di possedere, del corto circuito che ti porta in un altrove che ti fa sobbalzare. Occhi che si spalancano sull’inferno o sull’assoluta meraviglia. Confondendo le tracce, lasciando al sogno il compito di scegliere, di riannodare o sciogliere. Di dimenticare o incidere.
Vivrei sempre così in questa condizione di solitudine silente? Vivrei sempre in questo bilico di bellezza che mi restituisce un contatto troppo ravvicinato con me stesso e con le cose che amo? O è meglio scacciare questi fantasmi, tagliare ogni filo e lasciare che sia la solitudine rumorosa a guidare le azioni. Che sia il rancore, la consuetudine a leggere i tarocchi del futuro.
Nei mille interrogativi afosi, come un fantasma vestito di bianco e avana, lento passa Armando, sulle strisce, guardandosi a destra e a sinistra, come se i palazzi, o le assenze, potessero mettere a repentaglio il suo andamento lento. Chissà da dove viene, se è tornato a vedere il monumento alla resistenza o se sta cercando di riconoscere i suoi luoghi d’infanzia oggi che non ci sono troppi furibondi estranei. Oggi che gli impiegati col cravattino e il calzone stretto e corto non sciamano sui marciapiedi alla ricerca di un bar fighetto dove pranzare. O di un localino per ciondolare di aperitivetti.
Marco ha la serranda abbassata del bar e pure il kebabbaro davanti al Frida è chiuso. Già questo rappresenta una specie di record. Anche gli scalini sono sgomberi. C’è un solo movimento umano all’orizzonte. Si ferma la macchina, scende un anziano, va verso la sala giochi, la trova chiusa e bestemmia la Madonna. Proprio oggi che è l’Assunta e che nel mistero, camminando alla deriva, porto con me ogni immagine di assunzione e dormizione, di Poussin e Tiziano, con sottofondo non più dei Csi ma, sacralmente di Vivaldi, dei Vespri. L’inconsapevole invece bestemmia Maria vergine. E torna in macchina in attesa che cambi il mondo, che i suoi desideri diventino realtà, che il gioco della vita si schiuda al suo passaggio o per lo meno tiri su le serrande.
Incredibile a dirsi, ma il blasfemo viene premiato, nel giorno della nostra signora assunta in cielo. La sala giochi tira su le serrande per nuove e sfavillanti puntate. La bestemmia è servita, deve aver pensato l’osceno vecchio. E lesto si infila. E con lui altri spettri che si aggiravano invisibili. Spuntano dal niente, sono loro oggi i padroni dell’Isola, i giocatori calcificati dall’attesa che la ruota giri per il verso giusto, sicuri che accadrà e che accadrà proprio oggi. Ostentano questa sicurezza discutendo di calcio e di Isis (anche loro) davanti alla vetrina blu. Un contraddittorio vociante. Mi chiedo come possano essersi formate tante conoscenze così approfondite sul terrorismo internazionale in quest’ultimo tratto di storia. Tutti sanno tutto. E urlano.
Il vecchio osceno a gambe larghe, col pantaloncino alle ginocchia, parla al telefonino con qualche socio, amico, suggeritore di puntate magiche. Come in un rito di credenze antiche si tocca tre volte al punto giusto, poi si fa il segno della croce, e rientra. La bestemmia ha portato bene, vediamo se questa articolata azione propiziatoria possa tradursi in una scommessa vincente.
Il pensiero magico si irradia sul quartiere e si poggia come polverina scintillante sull’aria afosa. Tutta mia la città, un deserto che conosco. Un, due e tre. Poi quattro, cinque, sei, sette e bacio alle dita incrociate avanti e dietro.
18 agosto. Il centro massaggi cinese è aperto. Le visioni mistiche e profane si intrecciano con la sacralità del pensiero, Madonne straordinarie e in abito svolazzante e azzurro cielo attraversano la strada sull’incrocio di piazza Archinto. Forse non toccano neanche terra e sono scalze. Intrepide signore ignorano il miracolo e camminano sul marciapiede col cane al guinzaglio. Michele è seduto sugli scalini di Isola libri, come ogni giorno.
Una delle intrepide che ha appena incontrato la Beata Vergine, ignorandone il mistero, cammina ancora due passi, poi cambia marciapiede. Meglio dall’altra parte dove è tutto deserto e non si rischiano concioni. Michele sorseggia birra. Oggi non dà lezione di filosofia morale. Non ha interlocutori, non vede neanche la Madonna e non sente che nell’aria c’è una fibrillazione strana. Il quartiere in genere imbruttito dalla presenza troppo ovvia di cacciatori di mondanità a basso prezzo, oggi respira. La sospensione del tempo è ricchezza. Si sentono nuovi suoni, il vociare delle coppie nell’intimità delle finestre socchiuse, il frignare di un bimbo due strade più in là.
Chi beve al bar lo fa sorseggiando silenzi e pensieri.
Anche io sono in questa condizione spettacolare: bevo una birra, sto zitto, osservo Nostra Signora del mio viaggio che mi spalanca le braccia, ipotizzo mille idee per un nuovo progetto e non vedo l’ora che arrivi il tempo di questo sogno languido e barbaro. E mentre non vedo l’ora, mi godo la lentezza di un momento che rimpiangerò quando riprenderà la furia veloce della vita, degli incontri di lavoro, del tempo da non perdere e che viene buttato via a ogni passo rapido.
Mi ha preso così. Il centro massaggi cinese è aperto. Un tempo si chiamava Amore, ora ha un nome cinese e non so che cosa vuol dire. La fede, anche la fede ha bisogno di continue messe in gioco, mi avvicino allo scintillare della vetrina in via Medardo Rosso con cuore coraggioso e intensità, tanta intensità. La porta è spalancata, dentro è vuoto, una vecchia signora sfatta da caldo e dall’attesa siede sugli scalini e capisco che nell’agosto dell’Isola è un classico. Me l’aspettavo diversa, la signora. La fede si rafforza. Passo oltre. Il cuore tumultuoso sa che scriverà di nuovo con dita affaticate e penna stilografica un’altra lettera d’amore. Per l’anziana amante in attesa davanti al suo tempio, per la Vergine Maria che mi ha accompagnato in questi giorni di misticismo afoso.
Adesso sì che sono vestito di seta e d’amore.