di Barbara Monaco
In nome della libertà di espressione ci sentiamo ormai liberi di poter dire tutto ciò che ci viene in mente, senza curarci di saperne effettivamente qualcosa. Così diventa un girone infernale, ci troviamo costretti nostro malgrado a dover ascoltare qualunque cosa, senza poterne verificare la veridicità, la fonte, insomma la reale conoscenza da parte dell’interlocutore, sia questi un passante, un giornalista, un politico, un capo di Stato.
Succede così che senza nemmeno accorgercene assorbiamo informazioni ma non sappiamo dove e quando, da chi le abbiamo apprese, e rumorose ma ingannevoli si depositano nella nostra coscienza e ne prendono le sembianze. Personalmente passo la vita a vagliare le informazioni che mi tocca assorbire ma sono cosciente del fatto che questa passione non è di tutti, perché costa fatica, tempo, dubitare sempre è in qualche modo spossante se non cominci ad esercitartici fin da bambino, tanto da non poterne più fare a meno. Detto questo e ribadendo che sforzarmi di capire è il mio hobby preferito, ho una sola grande consapevolezza: ciò che realmente so sarà forse, per essere ottimisti, il dieci per cento dell’esistente.
Dubitando di tutto tranne che della mia ignoranza, non ho l’abitudine di esporre pensieri dei quali non ho in buona fede la piena convinzione, posso farlo tra amici, magari interrogandomi sulla verità: mai davanti a un pubblico sconosciuto. Parlare senza cognizione di causa è pericoloso, estremamente pericoloso. Nonostante questo è ormai costume di chiunque, poco importa delle responsabilità delle quali il personaggio in questione dovrebbe sentirsi detentore.
Mi riferisco a Dacca perché è l’ultimo atto di una guerra globale che ci sta martoriando tutti, ma potrei in egual misura pensare al Bardo di Tunisi, alla Questione palestinese, alla tragedia siriana, così come ai lontani 11 Settembre e Genova 2001, non fa differenza. Io non conosco la situazione del Bangladesh, è lontana da me, ma credo che lo stesso valga per la maggior parte delle persone che incontro, seppur loro ne parlino in scioltezza, come se fossero analisti della guerra al terrore e ne conoscessero le esatte cause.
Causare la morte, seminare il terrore è sempre e comunque condannabile, inaccettabile. Mi chiedo però, quando ascolto il nostro Presidente del Consiglio che, come tutti gli altri, evidentemente, non ci ha capito niente, come possa parlare alla Nazione esprimendo questo suo punto di vista: “Siamo colpiti ma non piegati”. Al di là della banalità, non avverte il nonsenso? Cosa vuol dire? Gli imprenditori italiani che sono rimasti uccisi durante la strage sono morti ma non piegati? Le loro famiglie anche? Quali sono gli italiani che non si piegano? In questo frangente chi resiste e soprattutto a cosa diavolo sta resistendo? Chi siamo noi “italiani”, che cosa ne sapevamo prima e cosa ne sappiamo ora delle imprese dei nostri connazionali a Dacca? Nulla credetemi. Intanto sui social network si rincorrono le opinioni, chi osa tirare fuori l’articolo apparso su “Il Fatto quotidiano” tre anni fa, riguardo l’incidente costato almeno 1.133 lavoratori, morti per uno stipendio medio di 410 dollari l’anno in un palazzo di 8 piani in cui si producevano abiti venduti dalle multinazionali venete Benetton e Piazza Italia, viene insultato, ridicolizzato, vilipeso.
Non fraintendetemi, posso capire, ci sono i morti, il dolore delle famiglie che meritano rispetto e, da parte mia, non credo neppure che gli assalitori avessero in mente i loro morti di tre anni fa mentre torturavano e uccidevano gli italiani, davvero non lo credo. Non credo che pensassero alle famiglie che non hanno ottenuto un centesimo di risarcimento perché le aziende italiane non hanno risposto all’invito delle organizzazioni a sedere ad un tavolo e parlare dei rimborsi e non si sono recati a Ginevra perché “La persona che si occupa della questione è in viaggio ed è difficile contattarla”. Non sono ironica, non lo credo davvero, probabilmente veramente si facevano la guerra a vicenda, Daesh vuole primeggiare su Al-Qaeda, o lo stavano davvero facendo in nome di Dio, pensando al paradiso futuro… non è importante.
Una questione rimane però, forse naif, forse priva di senso come tutto il resto: uccidere in nome di Dio è mostruoso certo, ma non credo lo sia di più che provocare la morte per i propri affari personali e non parlo di Dacca, non parlo di Benetton, parlo dell’accaparramento del petrolio, dei morti provocati nelle miniere d’uranio della città di Arlit in Niger che battono bandiera francese e negano gli effetti devastanti delle estrazioni su una delle popolazioni più povere del mondo, parlo della nostrana Terra dei Fuochi e chissà di quante nefandezze ancora che neppure conosco.
Sono atea fino al midollo, non sono in grado di capire cosa significhi immolarsi per un dio, addirittura sacrificare qualcun altro in suo nome. Pur non capendoci niente ho la sensazione che chi ci crede davvero, seguendo una filosofia di pensiero malata certo, potrebbe arrivare ad uccidere per un essere tanto superiore, per colui che tutto ha deciso e deciderà e che oltretutto gli riserverà il paradiso (attenti non è questo l’Islam, lo so bene!), non uccidere per Dio però, ma soltanto per sbarcare meglio il lunario questo sì, è veramente inaccettabile.
Torno quindi in chiusura al nostro Presidente, che conclude il suo sermone dicendo: “Continueremo la nostra lotta per un’idea di civiltà diversa da quella vista in azione questa notte. Mi appello alle forze politiche e sociali del Paese, nell’assoluta convinzione che non mancherà il comune impegno nella difesa dei nostri valori”. Cioè?