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Tre coetanei, tre cavalieri che, ricevuta la condotta, hanno vissuto in maniera diversa il proprio mestiere, chi come passione, chi come destino e chi per profitto diventando condottieri con profili ancora attualissimi.

Siamo nel Medioevo. Il periodo storico forse più epico, sia per senso mistico sia per la magica forza evocatrice, dellacartin1 storia moderna. L’Italia è divisa, consapevolmente e campanilmente. Ducati, gran ducati, corone e vessilli si stagliano all’orizzonte lungo tutto lo stivale. Un’epoca magica che non può non essere associata con i cavalieri. È curioso che l’immaginario comune, il revisionismo storico ha anche fatto la sua parte, veda ora queste figure come ligi, onesti e validi servitori dello stato – quale stato? – pieni di morale e virtù. Lancillotto, nonostante Ginevra, ha trasformato tutti i cavalieri in gentiluomini.

La storia di quegli anni, e per questo è forse più giusto chiamarla cronaca, ci riporta un’altra verità. Con il passare dei secoli abbiamo lasciato cadere la specificazione che sosteneva tutta l’impalcatura del cavaliere nella penisola italiana: di ventura. Eh si perché la nostra penisola è stata nel Medioevo la culla e anche la meta prediletta dei cavalieri di ventura. Un po’ per politica un po’ per orografia siamo stati la terra di quelli che le diplomazie moderne definirebbero mercenari.

La verità, come in molti casi, sta nel mezzo. Né gentiluomini né mercenari senza scrupoli.

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Jacopo Caldora

Come Jacopo (o Giacomo) Caldora, l’abruzzese della Val di Sangro, ricco per natali e per conquiste che tra la fine del 1300 e le prime due decadi del 1400 girò in tutta la penisola in cerca di avventure, fama, ricchezze, ma anche giustizia e indipendenza per le signorie che serviva. Eh sì perché, in un’epoca in cui ogni attuale provincia era in realtà dominio di almeno una diversa signoria, e in periodo in cui in tutta Europa i re tornavano a farsi chiamare imperatori per via del loro spirito egemonico, l’erba del vicino in quegli anni non era mai stata così verde agli occhi del dirimpettaio. Pessimi rapporti di vicinato che si scontavano con l’evidente difficoltà per piccole signorie a costituire propri eserciti in grado di difenderli dal vicino invasore. Jacopo Caldora, temprato dalle montagne e dalla dura vita che l’aspro territorio del basso Abruzzo offriva, iniziò la sua “attività” sotto Braccio da Montone – eh sì proprio lui! – combattendo al suo fianco in difesa del ramo napoletano degli Angioni, insidiati dai loro “fratelli” francesi per il dominio sul sempre tanto ambito Regno di Napoli. Da questo momento Caldora resterà sempre fedele agli Angioni napoletani (è bene ricordare che l’Abruzzo era territorio del Regno di Napoli e che la famiglia Caldora deteneva il titolo di Ducato). La fedeltà alla corona angioina lo porterà, dieci anni più tardi, nella battaglia de L’Aquila, a scontrarsi con il suo stesso primo capitano: Braccio da Montone, il quale, cambiata bandiera, nel 1424 assediò la città de L’Aquila. Mandato dalla regina Giovanna II a soccorrere la città, Caldora sconfisse i nemici e ferì a morte lo stesso Braccio che batteva vessillo aragonese. Salvata la città in questa epica battaglia grazie a Caldora fu anche definitivamente sconfitto il partito aragonese che insidiava il dominio angioino. Affianco alle abilità militari Jacopo Caldora vantava però anche spiccate doti e gusti intellettuali. Così si trova scritto su di lui in testi coevi: “fu magnanimo e non volse mai chiamarsi né Principe, né Duca; possedendo quasi la maggior parte dell’Abruzzo, del contado di Molise, di Capitanata, e Terra di Bari, ma li parea che, chiamandosi Giacomo Caldora superasse ogni titolo; ebbe cognitione di lettere, et amava i capitani letterati più che li altri”.

Un primo esempio non può certo bastare per una visione completa.

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Angelo Tartaglia

È interessante allora conoscere la figura di Angelo Tartaglia, lucano e coetaneo di Jacopo Caldora. Tartaglia batteva bandiera Sforza, e con il loro esercito mosse i primi passi verso la gloria. Più impulsivo del suo coetaneo abruzzese, pagherà all’inizio della sua carriera lo scotto della sua veemenza, lanciandosi, durante la battaglia di Casalecchio, nel combattimento, lasciando però il suo posto di presidio in difesa dell’accampamento e costando così la sconfitta della sua fazione. Qualche anno più tardi avrà modo però di riscattarsi. L’occasione è l’assedio messo in atto da Firenze (Sforza) su Pisa. In questa occasione si mostrò decisivo per l’annessione del Ducato di Pisa ai domini fiorentini. Anche Tartaglia ebbe a che fare con Braccio da Montone. In quegli anni il condottiero lucano aveva lasciato Firenze per il soldo del Regno di Napoli che necessitava difese per i suoi domini in Umbria. Fu assegnato di guarnigione a Perugia e la difese da Braccio da Montone, filo papale, che tentava di espugnarla. Ghibellino, Tartaglia combatterà in difesa dei valori dell’Impero anche a Roma e conquistandola e mettendo in fuga l’antipapa Giovanni XXIII.

Un’altra figura coeva dei primi due è quella di Guarnieri D’Uslingen. Svevo di origini, si unisce trentenne alla Compagnia di San Giorgio – una delle più grandi compagnie di cavalieri di ventura di quegli anni – al soldo degli Scaligeri di Verona. Difese la città dal Ducato di Milano che tentò invano di conquistarla. Si scontrò sullo stesso terreno, ma opposta fazione, con Angelo Tartaglia. In occasione della battaglia di Pisa. Guarnieri infatti combatteva in difesa di Pisa. Licenziato in seguito alla rovinosa sconfitta non si perdette d’animo ed anzi fondò una sua compagnia di ventura: la Grande Compagnia con al suo seguito 3500 uomini. Qualche anno più tardi incontrerà, a L’Aquila anche Jacopo Caldora. Come nel caso di Tartaglia però in opposti schieramenti. D’Usingen sarà schierato contro gli Angioni. Guarnieri D’Usingen è forse il più “canonico” cavaliere di ventura, quello che risponde di più alla narrazione che li vede come mercenari interessati solo al soldo. Combatté con la sua Compagnia praticamente sotto ciascun vessillo che in quegli anni rappresentasse il “carro del vincitore”. La sorte però ha voluto che proprio lui finisse gli ultimi anni della sua vita in miseria, costretto a vendere per fallimento e fame la sua compagnia. Quasi come un crudele destino che abbia voluto punire chi per tutta la vita ha inseguito le ricchezze a prezzo di fedeltà e coerenza.

Miriam Tuzi

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