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Un autobus mi scende a Petžalka.
In questo quartiere il cielo si vede solo se ci si stende a terra.
Infiniti complessi residenziali monopolizzano la zona.
Tante carceri una accanto all’altra.
La qualità architettonica è quella del prefabbricato.
Gli intonaci vantano però una notevole varietà cromatica: giallo, rosso, verde, arancio…
A casa mia se una prigione la fai color arcobaleno i detenuti non cambiano d’umore.
In mezzo a questa distesa di cemento armato travestito d’arlecchino, raggiungo una specie di baita.
L’indirizzo corrisponde a quello che inizia a sbiadirsi sul mio polso.
È un edificio in legno con una grande insegna luminosa che riporta il nome “Fortuna”.

Entro privo di istruzioni sul da farsi.
Le pareti sono tappezzate di cianfrusaglie.
C’è qualche animale imbalsamato, armi d’epoca e addirittura una sedia a rotelle.
Mentre fantastico sull’identità dell’interior designer, un cameriere mi accompagna al bancone.
Non sapendo cos’altro chiedergli lo seguo.
Siedo e cerco di intercettare gente che mi potrebbe interessare.
Un barista baffuto mi consegna una birra che non avevo chiesto.
Sorrido per educazione.
Se ne va.
Poi di colpo:

“Quindi sei italiano eh!”

Mi stacco di una decina di centimetri dallo sgabello, alle mie spalle si affaccia un tipo bassino, con una pelata lucente e una camicia rossa mezza sbottonata.
Porta una tracolla di quelle piccole e rettangolari che gli rimbalza sulla pancia mentre parla.
Leggo “Gucci” in almeno 5 diverse parti del suo corpo.
“Io ho vissuto in tutte le città d’Italia” mi fa.
“Ah bene, beh magari non proprio tutte” mi viene spontaneo di aggiungere.
“Ah no eh! Dinne una dai!”
“Eh non so… Caltanissetta!” la più strana che mi viene in mente.
Mi guarda severo per un istante:
“E do cazzo sta Caltanissetta! Buhahaaha!” scoppia in una risata fragorosa e con una pacca sulla spalla mi invita a ridere a mia volta.

“Allora tu che sai fare di preciso?” quest’uomo ha la dote innata di mutare il tono del discorso in un istante.
“Beh non so, mi dica lei di cosa ha bisogno”
“Anzitutto mi chiami Franchino, né più né meno, bene?”
“Bene”
“Allora, io mi occupo di donne, ok?”
Assento.
“Ti piacciono le donne o sei finocchio…? AHAHAH scherzo scherzo.
Dunque, io negli anni ’80 venivo qui con la Ferrari e ne caricavo a decine”
“Niente male per una monoposto” cerco di fare il simpatico io.
Questa volta non è in vena di battute e prosegue:
“Questo per dire che le puttane di questa città io le conosco tutte, e sai perché sono il numero uno?”
“No perché?”
“Perché mi sono scopato tutte le loro mamme io, negli anni ’80, e queste c’hanno la sudditanza psicologica per sto fatto”.
Riderei.
“Comunque a parte questo, tu devi fare una cosa semplice, le devi portare in giro. Sì insomma l’autista. Qualche volta prendi i clienti, qualche volta porti 3 o 4 ragazze a domicilio”.
“Ah, va bene, però io non ce l’ho la macchina…”
“E che se anche ce l’avevi secondo te io ti facevo portare la gente a mignotte sulla tua Clio con l’arbre magique al mandarino?”
Non fa una piega, anche se mi offende un po’ che mi abbia catalogato come uno che debba per forza avere una Clio.
“No beh certo, hai ragione”,  c’è un certo pragmatismo nella sua cafonaggine.
“Sei capace a guidare però…”
“Eh si, abbastanza”
“E adesso vediamo” mi fa cenno di seguirlo.
Mi porta sul retro del locale, c’è un piazzale d’asfalto.
Al centro una berlina Mercedes nuova di pacca.
A destra una serie di conetti arancioni delimita una circuito sul genere di quelli per l’esame di guida.
Mi guarda: “Allora? Monti o no?”
“Sì, sì va bene!”
Mi affretto dentro la macchina.
Mi siedo, i sedili di pelle gelati mi provocano un brivido alla schiena.
“E daglie!” mi incita lui a dare inizio alle danze.
Mi do da fare.
Non metto la cintura, intuendo gli insulti che il gesto mi farebbe guadagnare.
Il primo problema sorge all’accensione.
Non trovo la chiave.
Un braccio si sporge da fuori il finestrino a premere un bottone con su scritto “START/STOP”.

Inizio.
Faccio un paio di curve.
Poi c’è un 8, alla cui altezza butto giù un conetto.
Questa macchina è più lunga di quanto non sembri.
Ancora un paio di curve regolari.
Per concludere devo fare un parcheggio di quelli a spina di pesce.
Sono preoccupato perché non guido da un po’.
Ci vado cauto.
Imbocco correttamente, poi aggiusto.
Nel calo di tensione butto giù due birilli andando lungo.
Temo che Franchino non apprezzi.
Scendo.

Lui la fa breve:
“Vatti a comprare un completo, da “Gertrud”, non in un qualunque altro negozio.” Mi allunga un mazzo di banconote da 100€ di fronte alle quali sbigottisco.
“La macchina riportala a casa e stasera fa un po’ di pratica.
Domattina ci vediamo alle 8 qui”.
“Non fare una sola virgola diversamente dai miei ordini sennò ti sparo in bocca e ti butto sul Danubio ok?”
Fa con un’espressione molto seria che si dissolve progressivamente in un sorriso:
“Scherzo, scherzo.. Su vai! AHAHAH.”
“A domani” saluto io un po’ impaurito.
Annuisce e mi da le spalle.

Chi lo avrebbe mai detto: arrivo qui in autobus, a tasche vuote, e me ne torno in Mercedes con un mazzo di pezzi da 100.
Sparo la radio a tutto volume e d’improvviso mi sento il padrone della città.
Sfreccio per il ponte “Apollo”. Attraverso i suoi raggi scorgo la silhouette sovietica che mi avvolge.
Al mio arrivo non immaginavo lontanamente che sarei potuto finire dove sono ora.

È proprio vero che la realtà supera sempre l’immaginazione.

 

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