di Frine Beba Favaloro
Il 25 aprile è un giorno importante. Per me è un giorno di specchi. Inevitabilmente mi guardo attorno e mi guardo dentro, sollevando la fatidica domanda: quel tanto e convinto morire per la libertà, che democrazia ha contribuito a formare?
Il 25 aprile non è un giorno di commemorazione della resistenza. È il giorno che ci ricorda in che tempi di povertà intellettuale e sfiancamento dell’animo viviamo. E il giorno che ci invita a rinnovare la resistenza: resistenza di fronte alla dittatura dell’oblio e della passività, della delega e della rinuncia a pensare con la nostra testa.
Quest’anno il 25 aprile lo festeggio pubblicando un racconto mai condiviso, scritto dopo la visita all’Archivio Flamigni (grazie sempre, Antonio Cipriani).
È un piccolo regalo per Sergio Flamigni, un uomo che ha combattuto ieri e combatte ancora oggi, contro la dittatura sui corpi e sulle menti.
ABUSO DI PAROLA
Figli del Sessantotto
Io sono una figlia del Sessantotto.
Non perché sia stata concepita in uno slancio di amore libero, ma perché sono stata cresciuta a pane, burro e manifestazioni.
Seduta su un divano, alle pendici di un vertiginoso schienale, ho partecipato a decine e decine di riunioni fumose, piene di attivisti in eskimo tutti presi a ribadire inveterate convinzioni e a lisciarsi le barbe ricciolute. Ero molto piccola, sentivo una leggera puzza di bruciato ma immaginavo che arrivasse dalle tante sigarette che si stringevano nei posacenere.
Un giorno ricevemmo una visita inaspettata delle forze dell’ordine. Sempre osservando da un punto piuttosto in basso, riuscii a capire che gli uomini in blu non avevano finito lo zucchero ma cercavano qualcosa.
Senza capire bene cosa significasse la frase “Che nessuno si muova!”, presi la porta e me ne andai dall’amica di mamma in fondo alla strada. Quando rientrai a casa, più tardi, mi ritrovai di fronte a quello che (solo in seguito capii) era il classico soqquadro del poliziotto frustrato che non trova nulla. Ero ancora piccola, ma rimasi molto offesa che quei signori se ne fossero andati senza rimettere a posto vestiti, coperte e quant’altro. Le forze dell’ordine avevano lasciato un gran disordine in camera mia. Anche allora sentii puzza di bruciato, ma quella volta non c’erano sigarette accese e proprio non riuscii a capire da dove arrivasse quell’odore strano. Probabilmente, a cinque anni ero ancora troppo bassa per cogliere bene le sfumature delle contraddizioni in seno alla società capitalista che si agitava più in alto.
Io, semplicemente, non capivo e sentivo puzza di bruciato.
Dunque, ricapitolando in ordine sparso e aggiungendo qualche dettaglio, a cinque anni sapevo cosa fosse un ciclostile, come è fatto un poliziotto e come nascono i bambini. E che non dovevo andare in chiesa. Decisamente notevole per un’età tanto tenera.
Certo, la notizia che Babbo Natale non esisteva mi turbò un pochino e mi sentivo un po’ out la domenica mattina, a guardare dalla finestra le amichette che andavano alla santissima messa. Ma, nel complesso, sapevo di essere “all’avanguardia”, “un passo avanti agli altri”. Almeno così diceva papà.
Eppure io odoravo l’aria e sentivo, ancora, quel vago odore di bruciato.
Poi un giorno arrivò il giorno del nome.
La questione del nome
Io porto il nome di una donna libera. Anche piuttosto libertina e, diciamolo pure, incriminata e prosciolta con un escamotage ideologicamente discutibile. Ma la libertà per una donna ha sempre un prezzo più alto.
Questo nome mi è stato assegnato con il seguente auspicio: “Che tu sia libera, colta, emancipata”.
Amen.
Un giorno che avevo tredici anni andai da mio padre e gli chiesi come mai mi avesse messo il nome di una donna tanto libera, tanto colta e tanto emancipata, mentre lui non mi faceva neanche uscire per andare a prendere il gelato con le amichette (che poi erano quelle della chiesa), per non parlare di uscire con gli amichetti (che giravano attorno alle amichette della chiesa).
“La prima guerra per la libertà si combatte in famiglia.”
“Eh? In che senso? Ma non eravamo all’avanguardia?”
Incredibile…ancora non capivo! Ma a quel punto la puzza di bruciato cominciò a diventare asfissiante.
Poi
Sono uscita di casa. Il sole è alto, la brezza lieve. Ho camminato, molto.
La strada era sconnessa e non sapevo dove andare. La meta ufficiale era il luogo più lontano e così lì mi sono diretta. Ebbra di lontananza, per qualche istante durato anni quel sospetto odore di bruciato mi ha lasciata in pace.
Poi un giorno sono tornata. Era strano.
Ho girato per le strade, ho acceso la televisione, ho aperto i giornali. Tornando da dove è lontano, i miei occhi erano puliti e le mie orecchie aperte.
Le parole mi hanno invasa.
Immani, continui, inaspettati attacchi. Dopo quei primi, violenti colpi, per mesi ho camminato a testa bassa per difendere la mia attenzione, per non essere rapinata da tutti quegli slogan che pubblicizzavano prodotti e politiche lungo le strade. Ho vissuto senza televisione. Ho usato giornali e riviste solo per pulire i vetri delle finestre in salotto.
Ho cercato di fuggire di nuovo ma alla fine ho dovuto alzare la testa e guardarmi intorno.
Ho scoperto che la puzza di bruciato da cui mi illudevo di essermi allontanata, si era impadronita dell’intero mio paese, e che per di più s’era mescolata ad altri odori più pungenti. Burro rancido, frittelle ammuffite, vestiti dimenticati. Era la nuova comunicazione.
L’etere, culla di questa nuova comunicazione, traboccava di notizie fuorvianti, vallette eccellenti, parlamentari convinti di non si sa bene cosa e di sparuti, lucidi commentatori le cui parole, nel fragore dell’arena, ricevevano come premio la più assoluta indifferenza.
Ero tornata in un paese in festa, o meglio impegnato in un festino massmediale per il piacere di pochi e pagato con la coscienza di tutti. Un paese assediato dalla propria volgarità.
L’Archivio Flamigni
Sergio Flamigni ci accoglie sulla soglia dell’Archivio Flamigni. C’è anche Emilia Lotti, sua moglie. Emilia è una donna piccola e solida, adornata di un instancabile sorriso. Anche Sergio ci sorride. Sembra toccato dalla nostra visita, come se non fossimo noi fortunati a poter visitare un luogo simile, ma lui a potercelo mostrare.
Mi sento molto piccola mentre guardo quest’uomo, ma qualcosa mi dice che non è un problema. Non si sente puzza di bruciato, né di burro rancido né di frittelle ammuffite o vestiti dimenticati. Strano, penso, qui niente è nuovo, niente è fiammeggiante, niente è così fantasmagorico da illudere l’olfatto che qualcosa stia avvenendo. Il mio naso è nel pieno delle sue facoltà e non sente puzza. Che strano posto.
L’Archivio è distribuito in diverse stanze ed è composto di numerosi faldoni pieni di documenti e di un’infinità di libri. Come una improbabile nipotanza, ci mettiamo ognuno dove può e ci prepariamo ad ascoltare il racconto dell’anziano di questo insolito villaggio.
Sergio comincia a parlare, Emilia gli è accanto. Testimonia e sorride, aggiungendo di tanto in tanto qualche commento alla storia di questo luogo e delle loro vite.
“Qui c’è la raccolta di atti delle Commissioni Antimafia, P2 e Caso Moro di cui sono stato membro.” Sergio ci mostra una parete piena fino al soffitto. Decine di faldoni. Costoni che riportano pezzi della nostra storia, in due o tre parole, e custodiscono appunti di eventi, annotazioni di fatti, considerazioni e valutazioni di circostanze.
Proseguiamo. Al piano di sotto ci sono i libri, tanti, e i giornali e le registrazioni dei telegiornali di trenta anni fa.
Seguendo i racconti di Sergio sui contributi donati alla biblioteca da vari personaggi, guardiamo i libri e sembra che oltre a noi ci sia anche qualcun altro. Ogni faldone, ogni volume, ogni copia di giornale, ogni videocassetta e fotografia, ogni cosa deve essere stata poggiata su quegli scaffali da una persona con un intento, un chiaro pensiero, una parola pronunciata a metà e conclusa nel silenzio di un’ultima riflessione. Ogni oggetto è qui con il proprio bagaglio e sembra ben più vivo dell’inerte carta che lo compone.
È la memoria. Qui è un luogo della memoria, denso e salvo da ipocriti moralismi, grazie al rispetto per la verità con cui è stato concepito. Un luogo che raccoglie sguardi di persone, occhi non edulcorati dal tempo o dalla supponenza del resoconto storico, che a tratti emana, anche lui, quella puzza che fuori è diventata normalità.
Tornando al piano di sopra, nel racconto di Sergio si inserisce Antonio, “Su questo tavolo abbiamo lavorato giorni interi alla stesura di ‘Sovranità limitata’”. Un racconto nel racconto, ancora parole e pagine che rievocano un pensiero, un intento, una devozione alla memoria e alla verità. Un’altra storia si solleva nell’aria tranquilla della piccola stanza. In questo luogo, con queste persone, la storia acquista una consistenza diversa, da qualcosa che è accaduto diventa qualcosa che è accaduto a noi.
“Ecco, questo invece è il Fondo Emilia Lotti.” Sergio ci mostra una discreta raccolta di materiale sull’attività dell’Unione Donne in Italia e della Commissione per le pari opportunità. E anche qui il passato si anima e mi colpisce in modo particolare, perché, mi sia concessa la ripetizione, la libertà per una donna ha sempre un prezzo alto e quanto conquistato, la possibilità di scegliere, di avere il rispetto e le opportunità che ci sono dovute, tutto questo non è mai scontato e ci può essere sottratto sottilmente, complici la mancanza di attenzione e di memoria. Perché sapere da dove giunge quanto oggi “è” di diritto, ma soprattutto vedere e sentire chi ha combattuto affinché ciò avvenisse, vivifica il presente e lo rende più reale.
Appendice – La parola e il corpo
Flamigni è un uomo che conosce la nostra storia. È un po’ come se questo signore conoscesse tutti noi. Ascoltarlo permette di ritrovare pezzi sparsi del nostro passato, ma anche del presente e persino del futuro. Perché quello che saremo è quello che siamo stati più il consapevole, salvifico lavorio della memoria.
La liberazione di Forlì, la legge che ha dato ai giovani il diritto di voto a diciotto anni, la legge sul divorzio e il popolo che la difese, ma anche i sabotaggi alla libertà, le stragi, le strategie occulte di entità non sovrane ma regnanti sulle nostre teste, i segreti di stato che dovrebbero esser stati rivelati da anni.
C’è bisogno di capire, per curare quella sensazione sottopelle, puntualmente negata, di essere privati del potere di esercitare volontà e autodeterminazione.
L’incontro è finito, usciamo dall’Archivio. Fuori le parole sono ancora abusate. Cammino. Le mie gambe sono più forti, il bacino stabile. Non si sente puzza di bruciato.
Respiro e penso. Io sono, io posso.