La reincarnazione è la rinascita dello spirito di un essere vivente nel corpo di un altro essere vivente.
Se muore un uomo onesto, probo e coraggioso, si reincarnerà in un essere ancora più nobile, ma se muore un uomo malvagio, perverso e di dubbia moralità allora questo si reincarnerà in una creatura spregevole.
Questo è quanto avvenne a Frederick Rolfe, che, dopo aver condotto una vita segnata dal vizio, tornò sulla terra con le sembianze di un corvo.
La sua prima esistenza lasciava presagire un epilogo dorato, ma qualcosa andò storto.
La sua strada gli fu indicata da una folgorazione, o meglio da una chiamata, come si dice in questi casi. Era il 1886 e si trovava alla King’s School di Grantham, dove insegnava letteratura, perché era un vero prodigio, nato, a quanto pare, con una sorta di scienza ancestrale che lo rendeva una delle persone più colte del suo tempo, quando arrivò l’illuminazione: avrebbe donato la sua vita al Signore.
Frederick Rolfe entrò in seminario e, forte della sua sincera quanto fervente vocazione, fu da subito certo che nel giro di qualche anno si sarebbe seduto sul trono papale, suggestione che lasciò anche scritta in un romanzo, l’Adriano VII, nel quale un giovane prete diventa Papa e salva le sorti dell’Europa. Si dilettava nella scrittura, nella poesia, nell’arte e nella fotografia. Ma c’era qualcosa che lo prendeva ancor più della letteratura e del servizio sacerdotale e fu il motivo della caduta vertiginosa di quella giovane promessa della Chiesa in un abisso oscuro e dal quale non si poteva tornare indietro: il sesso.
La lussuria, si è sempre saputo, non è mai stata in sé per sé un peccato tanto scandaloso tra i prelati. Il vero problema era che la passione di Frederick Rolfe volgeva il suo sguardo ai giovani uomini, dalla carne ancora incorrotta.
Così fu cacciato dal seminario due volte, la prima a Oscott e la seconda a Roma, per l’incompatibilità del suo spirito con l’abito che indossava, e quando i suoi sogni cedettero il passo alla realtà, quando capì che non sarebbe mai diventato Papa a causa di quella sua irresistibile propensione al vizio, Frederick Rolfe morì per sempre e nacque Baron Corvo.
Quando Baron Corvo arrivò a Venezia tutti si accorsero con uno sguardo che non si trattava di un missionario, sebbene si vestisse spesso da prete.
E fu forse proprio il nero della tonaca, unito al timore che la sua figura impartiva negli occhi di chi la incontrava, a rendere più facile l’immaginazione e mostrarlo veramente al mondo con le sembianze di un gigantesco corvo nero. Il suo nome perseguitò per anni la sensibilità dei cittadini della laguna. La sua unica attività era sbarcare il lunario, sempre in cerca di un letto su cui passare la notte, che spesso non trovava, arrangiandosi lungo la spiaggia del Lido o sotto i copertoni delle barche ormeggiate al molo.
Lui stesso racconta, in una delle sue memorie, di aver dormito per tre notti in una bagnarola persa nel mare aperto, dinnanzi alla laguna, e che dovette anche lottare per la sopravvivenza contro un ratto che lo raggiunse a nuoto e tentò di rosicchiargli via un piede.
Aveva perso tutto ciò che era stato del brillante ed ambizioso Frederick Rolfe, diventando solo un’inquietante sagoma, una storia da raccontare per fare spavento. I veneziani lo evitavano, proprio come chi passeggia al parco evita i corvi.
L’unica cosa che gli era rimasta era la passione per quell’amore scandaloso, che accolse e concesse diverse volte durante la sua permanenza a Venezia.
Aveva una particolare predilezione per i gondolieri. Diceva che l’aver remato fin da tenera età aveva reso i loro fisici tonici e asciutti come solo nella laguna si potevano trovare. Annotava perfino le loro prestazioni, in lettere e fogli di diario ancora accessibili ai meno suscettibili.
I suoi preferiti erano Zildo Vianello, Carlo Caenozzo e Piero Venerando, con il quale condivise un’irripetibile notte d’amore al primo piano di una locanda a Burano. Mise in piedi un vero e proprio mercato, tanto che Oscar Wilde, parlando di Venezia in una lettera, scrive “le marchette dei gondolieri sono grottesche”.
Spesso si trovava in un angolo di piazza San Marco, a torso nudo, in cerca di signori della sua stessa parrocchia a cui proporre i suoi ragazzi, ma altrettanto spesso chi incrociava il suo sguardo accelerava il passo è filava via.
Quando anche Baron Corvo morì, nel 1913, tutta Venezia ne fu felice. Unica eccezione i giovani gondolieri, che non avevano mai avuto paura della sua esistenza miserabile e lo avevano amato veramente.
Il suo spiritò volò via ma, non trovando un essere più ignobile nel quale reincarnarsi, rimase nell’aria di Venezia, dove ancora spaventa gli sprovveduti avventurieri della notte.
Perché è durante la notte che esce oggi Baron Corvo, quando il male non si vede, e si può confondere col cielo, dietro le sue piume nere o la sua tonaca da prete.
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