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di Antonio Brizioli

 

Cos’è l’arte?”, “Cosa è arte?”, “Che significa oggi essere artisti?”

Solo chi opera in questo campo può capire con quale rituale quotidianità si sia costretti a rispondere a queste domande, alle volte a farle a se stessi, senza mai giungere ad una risposta univoca. D’altra parte una risposta univoca sarebbe al contempo parziale, ponendosi la pretesa di escludere arbitrariamente alcuni interlocutori. Ad esempio nessun amore per la sperimentazione e l’invenzione di nuovi linguaggi (che è in fondo qualcosa di molto vicino al senso dell’arte) potrà privare della possibilità di chiamare artista un eccellente esecutore di paesaggi, se non a prezzo di una grave falsificazione. Al contempo si dovrà rilevare che quell’artista esecutore di paesaggi poco avrà a che fare con un Damien Hirst o uno degli altri mostri sacri celebrati dal mercato a suon di transizioni milionarie, che a sua volta poco avrà a che fare con un Banksy e ancor meno con gli artisti-attivisti che in tutti i continenti cercano alternative alla gestione neoliberista delle città, della rete, degli spazi di dialogo.

La verità è che viviamo in un’epoca di transizione, nella quale, conclusa da più di un secolo quella fase in cui l’arte ambiva con artifici tecnici di vario ordine a ritrarre fedelmente il vero, si è ormai definitivamente esaurita anche la fase di rottura dell’ordine stesso, inaugurata dalle avanguardie del primo novecento e protrattasi negli anni Sessanta e Settanta, quando si sono teorizzati nuovi movimenti, nuovi ruoli per l’artista, nuove forme di dialogo con la società. Oggi, complice il relativismo, complice la stanchezza di tutte le innovazioni, complice il senso di smarrimento che riguarda il rapporto di ogni individuo con la società a prescindere dall’arte, complice il torpore della classe intellettuale, la latitanza di critici e filosofi, ci troviamo effettivamente in un vuoto caos, che solo con molta fantasia e altrettanto coraggio si può rendere l’occasione per teorizzare qualcosa di nuovo, di inedito, di realmente in grado di incidere sulla sfera sociale anziché plasmarne fedelmente gusti e perversioni.

Credo quindi che il proprio impegno vada rinnovato con esperienze concrete, che non rinuncino alla pretesa fondamentale di tornare a rendere l’arte vicina alle esigenze, all’immaginario, ai problemi, ai sogni, alle lotte delle persone… Senza rimanere invischiati in questa comprensibile esigenza di ridefinizione della parola arte, rispetto alla quale ritengo valida l’affermazione di Dino Formaggio secondo cui “L’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte” (Fenomenologia della tecnica artistica).

Una visione che non vuole scivolare in un lassismo permissivo che sminuisca l’arte stessa, ma che vuole al contrario rinvigorire l’attivazione di un dibattito teorico, di un impegno pratico, di una ricerca incessante di soluzioni… Imprese ben più ardue del pretendere di stabilire a tavolino cosa sia o non sia arte, creando delimitazioni che in fondo saranno sempre opinabili. Che in fondo anche quando sono state fatte in passato, in un clima in cui era più facile districarsi, hanno comunque creato forzature, hanno comunque escluso abitrariamente degli interlocutori e hanno sempre premiato visioni storiche implicate con la politica e con i poteri.

Quindi molto più utile che stabilire cosa sia arte, è l’impresa di dimostrare che non è ciò che la maggior parte dei fruitori danno per scontato che essa sia. L’arte non è non può essere intrattenimento, fruizione passiva di uno spettacolo organizzato a immagine e somiglianza di chi lo prepara. E non può esserlo per un semplice motivo, perché se così fosse non esisterebbe la storia dell’arte, non esisterebbero gli stessi artisti che il mercato celebra, non esisterebbero Picasso, Boccioni, Mirò, Manet, Courbet… Non esisterebbero le avanguardie che con molta curiosità e altrettanta approssimazione s’insegnano a scuola: il futurismo, il costruttivismo, il dadaismo, il surrealismo… Caratteristica precipua dell’arte è sempre stata quella di rapportarsi alla società che l’ha vista esprimersi, che sia per rappresentarla, per interrogarla o per combatterla.

Per questo oggi più che mai ha senso riflettere sulle implicazioni sociali dell’arte, addentrarsi in quei momenti chiave della storia in cui gli artisti hanno reinventato il proprio ruolo: mettendo da parte il pennello per combattere o fare politica diretta (caso emblematico quello di Courbet durante la comune di Parigi); mettendo le proprie opere al servizio di una battaglia, o di una rivoluzione (si possono citare i costruttivisti nell’immediata scia della Rivoluzione d’Ottobre, i dadaisti berlinesi durante la resistenza al nazismo); riscoprendo linguaggi che sembravano dimenticati per recuperare un contatto con la gente comune (come nel caso dei muralisti messicani); evolvendo la ricerca teorica di un movimento in politica attiva nelle piazze (si veda il ruolo del situazionismo nel Maggio 68 parigino).

Voglio addentrarmi nel racconto di alcuni episodi emblematici della storia dell’arte, per aprire gli occhi su chi realmente fossero quegli artisti di cui oggi passivamente si osservano i quadri nei musei, su quali esigenze li sospingessero, su quali fossero i loro rapporti con la società di cui si riconoscevano parte integrante e all’interno della quale avevano il coraggio di attribuirsi un ruolo. Questo non per arrivare a dire che l’arte sia valida solo come strumento di lotta né per negare la possibilità che un quadro possa essere bello di per sé, ma per denunciare il grave crimine di chi vuole staccare l’arte dalla vita. Perché staccata dalla vita, l’arte, è nel migliore dei casi un bellissimo oggetto.

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