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di Paolo Marchettoni

 

Domenica dopo pranzo, uscendo di casa, mentre apro la porta dico ai miei: “Ciao, vado al MANU”. La porta non ancora del tutto richiusa lascia che una voce mi raggiunga: ”D’accordo, ciao. Salutamelo tanto” risponde qualcuno pensando che mi stessi dirigendo a far visita a un vecchio amico.  E’ la prima domenica del mese, perciò si può entrare gratuitamente in tutti i musei italiani, compreso il MANU che è il Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria. Vado a immergermi per un po’ nelle etruscherie custodite tra le mura del bellissimo convento di San Domenico, in piazza Giordano Bruno 10. Lo scenario mi affascina per la monumentalità della piazza con i suoi edifici, ma soprattutto per la scelta dell’odonomastica alquanto poetica: come la poesia per mezzo dell’allusione, così la targa recante il nome del martire alimenta la dimensione della tradizione sopita negli individui. La sera del 23 maggio 1592 Giordano Bruno fu incarcerato nelle prigioni del Sant’Uffizio di San Domenico di Castello a Venezia. Anche lui era stato frate domenicano: ordinato, processato, quindi condannato a deporre l’abito e infine al rogo.

Salgo al primo piano e faccio un giro nel chiostro tra le urne cinerarie etrusco-romane, quasi tutte decorate con epigrafi e sculture a rilievo che raccontano delle storie. Scene figurate con soggetti mitologici ornano le pareti di questi veri e propri monumenti ai defunti e alla morte. Tra i motivi più ricorrenti si trovano i demoni femminili Vantb e Lasa, che indicano la forza e l’azione ma anche la sorte in vita del personaggio defunto e la testa di Medusa, raffigurata allo scopo di allontanare gli influssi maligni. Mentre il mito più rappresentato è senza dubbio il sacrificio di Ifigenia: il re Agamennone deve sacrificare la figlia per placare l’ira di Artemide che impedisce alla flotta greca, bloccata in Aulide, di salpare per Troia.

Come noto, il costume funerario in Etruria aveva un’importanza notevole e prevedeva una ritualità precisa basata sulla “sopravvivenza” del defunto sia nell’aldilà che nel ricordo dei vivi. Durante l’inumazione, ad esempio, i morti venivano deposti su banchi che richiamavano i letti tricliniari, pronti a prender parte al banchetto dell’eternità; in caso di cremazione, soprattutto nella fase più antica, il contenitore dei resti assumeva spesso caratteri antropomorfi. Vita e morte sembrano unirsi in un abbraccio fino a fondersi completamente, come ben dimostra l’urna di Annia utilizzata come fonte battesimale del duomo dal XVI secolo al 1833.

Percorso il perimetro del chiostro mi addentro nelle sale interne.

A darmi il benvenuto è un cartellone con foto e didascalia di Giuseppe Bellucci, uno scienziato e ricercatore perugino dall’aspetto distinto con i baffi, il capello un po’ alla Einstein e la passione degli amuleti. La sua collezione conta circa tremila amuleti e altri oggetti legati a forme rituali di protezione magico-religiosa ed è una delle più ricche della nazione, frutto di un’intensa attività durata cinquant’anni (dal 1871 al 1920). Qui sono esposti gli amuleti italiani a lui contemporanei, ovvero in uso tra la gente dell’Italia centro-meridionale tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Inoltre, è presente una sezione con alcune tavole dedicate alla comparazione tra amuleti antichi e contemporanei di diverse popolazioni.

Nella sezione etrusco-romana il membro di Priapo attira subito la mia attenzione. Il culto del membro virile eretto era diffusissimo nell’antichità e le ragazze indossavano bracciali e amuleti per propiziare la loro fecondità e scacciare invidia e malocchio. Per un attimo penso agli antichi che erano attenti osservatori del mondo e dei ritmi della natura; poi torno con la mente al presente e ai contemporanei attenti osservatori di X-Factor o Masterchef e un po’ confuso mi chiedo come reagirebbe una ragazza di oggi se il suo fidanzato le regalasse un bell’amuleto a forma di pene eretto.

Mentre cerco una risposta a questo interrogativo, c’è un’altra teca che cattura la mia curiosità. Si tratta di una sezione di amuleti connessi alla vita affettiva e sentimentale dove la sottostante didascalia recita: “…pare dominante l’idea generale del legare e, all’opposto, dello sciogliere, in riferimento simbolico proprio ai legami affettivi che si vogliono instaurare o far cessare con l’aiuto di oggetti e di strumenti di carattere magico…”. Un simbolo in particolare riassume alla perfezione questo duplice aspetto di unione e scioglimento: la manofica. Alcuni scritti della tradizione taoista (come il Trattato del Fiore d’Oro) fanno riferimento a questo senso alchemico di coagulazione e dissoluzione in cui la mano chiusa corrisponde allo sforzo di concentrazione spirituale, mentre il dito che fuoriesce dal pugno rappresenta il non intervento, il libero sviluppo dell’esperienza interiore in un microcosmo che sfugge al condizionamento spazio-temporale. La manofica è appunto una mano dal pugno chiuso che stringe il pollice tra l’indice e il dito medio. Essa serve a proteggere dalle sventure e dalla malasorte le fanciulle e gli innamorati. Le giovani donne la indossavano per scongiurare fatture e legature in campo erotico e affettivo, contro le invidie e le dicerie in ambito sentimentale; si può trovare in forma di amuleto, ma anche innestata su spilloni da capo, lavorata in diversi materiali, come il corallo, e metalli preziosi, dal bronzo all’argento.

Per caso guardo l’orologio e mi accorgo che tra urne e amuleti ho terminato il tempo a mia disposizione, per quest’oggi. Attraverso di nuovo il chiostro e una volta fuori dal complesso saluto il MANU nella speranza di rivederlo presto come se fosse veramente un vecchio amico.

 

Qualche scatto dal museo:

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