di Luca Mikolajczak
“Che fai a Capodanno?”. La fatidica domanda mi ricorda da quasi un mese che la festa più pagana e forzata incombe col suo strascico di paillettes e aspettative. Non me ne sono neanche reso conto, che il grande giorno è arrivato. Senza farmi prendere dall’ansia, cerco di valutare con analitica oggettività le varie possibili soluzioni:
Capodanno tradizionale – indossare qualcosa di rosso, meglio se sotto gli indumenti, e, così munito del mio amuleto intimo, affrontare l’ennesimo cenone in compagnia di parenti, amici, conoscenti. Tutti intenti a gonfiare lo stomaco e sgonfiare il portafogli, succubi di un diktat di ormai inveterata tradizione. Consuma tanto a Capodanno, così lo farai tutto l’anno. Se devo essere sincero, le lenticchie finora non hanno mai funzionato granché e il cotechino non esercita più il fascino di una volta su di me, ora che ho scoperto i piaceri della carne bianca. Forse passerò.
Capodanno disfattista – lasciarmi prendere dalla sindrome menefreghista e, se Capodanno è un giorno come un altro, tanto vale rimanere a casa in tuta e guardare “Notting Hill” replicato per la millesima volta, magari con una confezione di Baci Perugina a disposizione. Mi pento subito dell’eresia che la mia mente malsana ha partorito: Capodanno in fondo mi piace, la tuta non la indosso neppure per buttare la spazzatura, figuriamoci nei giorni di festa, e poi non mi chiamo mica Bridget Jones.
Capodanno fuorisede – trascinarmi col treno in qualche città universitaria che proponga della musica alternativa a Gigi d’Alessio e festeggiare l’anno nuovo con una colossale sbornia a base di cicchetti preparati dai fedeli amici del Bangladesh (che con le loro filiali in tutta Italia non abbandonano mai nel momento del bisogno). Così riscaldato, dirigermi verso i portici o le scalette del sito e unirmi alle note di “Gianna” di Rino Gaetano, immancabile brano nella scaletta di un animatore delle folle che si rispetti. Il programma è così scontato, che dico no.
Capodanno chic – vestito con gli abiti migliori, dirigermi verso una meta di mare o montagna, a seconda delle preferenze, e dedicarmi alle attività caratteristiche, assaggiare le prelibatezze del luogo in attesa di lasciarmi incantare dalla visione dei fuochi sopra l’acqua o a fianco delle cime nevose. Una bella prospettiva, ma poiché non ho ancora uno stipendio da dilapidare, né un munifico accompagnatore a disposizione, sono costretto a rimandarla ad anno venturo.
Capodanno tamarro – rinchiudermi nella discoteca di impronta più commerciale e annebbiare i pensieri nella vodka e nelle melodie di David Guetta, pronto a farmi innaffiare di spumante o altro liquido spacciato per tale. Dubito che ci sia ancora qualche temerario disposto ad affrontare questa impresa epica.
Capodanno hot – fare un giro di telefonate, possibilmente in compagnia, tra le professioniste e i professionisti del settore voluttuario per eccellenza e sentire cosa offrono per il menu della serata. Non penso di essere pronto per questa esperienza, ancora credo nei rapporti spontanei.
Sconsolato, chiudo il taccuino.
Ormai si è fatto tardi. Decido di non lambiccarmi più il cervello alla disperata ricerca di un contenitore di frenesie. Indosso il mio boxer rosso fiammante (a quello non rinuncio) e approfitto del clima mite che il surriscaldamento globale ci ha regalato per fare quello che più mi piace: uscire alla ventura con qualche compagno di divagazioni e rivoluzioni.
Per andare dove, fare cosa?
Metto a tacere ancora una volta la mia mania di pianificazione. Si sa, la magia non si programma, si vive.
Un calice di contraddizioni novelle in mano, voglio godere degli afrori di una notte liminare. In bilico tra un anno e un altro. E forse proprio per questo affascinante, perché titubante e vezzosa come una sposa alle soglie della casa coniugale. Una notte che non vuole essere quotidiana.
Decido che nemmeno io voglio essere quotidiano, né oggi né mai. Qualcuno di cui mi fido mi ha detto che il meglio deve arrivare. Allora scendo in pista, e ballo senza paura di inciampare nelle mie timidezze.