di Matteo Minelli
È arrivato Natale ed insieme all’albero, al presepe e alla mitica messa di mezzanotte ci aspetta l’intramontabile rito dei regali. A chi non piace ricevere i regali, soprattutto quelli delle liste prefabbricate, quelli a lungo ambiti e poi richiesti, quelli desiderati e infine perfino pretesi. I regali ci mettono buon’umore, allietano le feste ormai svuotate di significato e appagano per qualche istante il mostro consumista che ci divora l’anima. Certo stiamo parlando di cadeau ricevuti, tutt’altra storia è farli, i regali.
Sappiamo bene che fare un regalo, specialmente durante le festività, diventa spesso una questione sgradevole. Dove comprarlo? Quanto spendere? Sarà di suo gradimento? Troppo sfarzoso, o troppo poco, pretestuoso, infantile, senza o con lo scontrino per il cambio, incartato a mano o con la busta griffata del negozio, intimo o no, personale o no, per la casa o no. Questi e mille altri dubbi ci attanagliano, mentre, come sherpa tibetani, trasportiamo tonnellate di oggetti da centri commerciali, boutique e profumerie alla nostra stiva casalinga, in attesa che vengano distribuiti prima che gli ultimi aghi dell’abete decorato cadano a terra confermandoci che un altro Natale è passato e siamo, gioco forza, sopravvissuti. Per cui, diciamocelo senza tanti giri di parole, fare regali per molti di noi è una sorta di supplizio che si ripete ad ogni compleanno, festività, cerimonia religiosa o civile.
Questo avviene perché abbiamo totalmente perso lo spirito del dono, quel principio immateriale che rappresenta la vera essenza del regalare. Il nostro donare, molto simile al do ut des di latina memoria, è in realtà sempre uno scambiare. Un dare per ricevere. Ed è quel ricevere che condiziona in maniera determinante i gesti, i comportamenti, tutta la ritualità del regalo di cui siamo al tempo stesso vittime e carnefici. Da uomini civilizzati quali siamo, infatti, abbiamo relegato il dono ad uno spazio tempo ben preciso, e allo stesso tempo ne abbiamo quantificato il valore fino al grammo. Il punto più alto, o più basso decidetelo voi, di questa traiettoria è la coincidenza regalo omaggio. Una sorta di tributo da offrire a qualcuno più ricco, più potente, più introdotto di noi. Capite bene che a questo punto dell’autenticità del dono resta poco, rimane soltanto la donazione, che ovviamente è ben accetta da parecchi ma appartiene a tutt’altra storia, ha tutt’altra origine e tutt’altro fine.
Mentre noi ci districhiamo in questa giungla di scambi e ricambi, in moltissime società tribali il dono è un’offerta gratuita e priva di contrappesi, e se possibile anche di più: il dono è il mezzo di base della solidarietà e dell’uguaglianza comunitaria.
Dall’Essai sur le don di Marcell Mauss, passando per Lévi-Strauss, Firth e Johansen moltissimi antropologi si sono interrogati sul vero significato del dono e sull’insieme delle pratiche di reciprocità che regolano la vita delle comunità tribali. Perché è appunto il principio di reciprocità a regolare il circolo dei doni, un flusso materiale e spirituale che di fatto finisce per regolare i rapporti sociali di tutti. Non sappiamo se Mauss avesse ragione nel indicare questo processo come metodo primitivo di mantenimento della pace e dell’equilibrio tra gruppi, una sorta di contrattualismo ante-litteram basato sul “libero dono di tutto tra tutti”. Ciò che sappiamo è che di fatto la corrente dei beni nelle culture tradizionali, a differenza del nostro commercio, ha una funzione non strumentale ma sociale. Questo evidentemente avviene in subordine al modello economico adottato, nel quale i beni sono sempre prodotti collettivamente e in spazi indivisi e pertanto non possono che essere ridistribuiti comunitariamente. È ovvio che stiamo parlando di un modello di circolazione dei beni idealmente superiore tanto allo scambio alla pari tra due individui (in cui A dona a B e di conseguenza B dona ad A) tanto al movimento che partendo dal centro va ad interessare le varie periferie (A raccoglie tutti i beni li restituisce a B,C,D). Stiamo parlando di quello che Marshall Sahlins ha definito Reciprocità Generalizzata e che Malinowski aveva precedentemente battezzato come “puro dono”. Si tratta di tutti quei casi in cui la spartizione o il dono di qualcosa non prevede alcuna contropartita materiale. Il lato tangibile della transazione è eliminato e resta soltanto quello sociale.
Ciò che noi civilizzati fatichiamo a comprendere è che in questo sistema il dono non si contraccambia in un tempo, in una qualità e in una quantità stabilita, bensì l’aspettativa della reciprocità è spiritualmente indefinita. Insomma esiste un obbligo diffuso a contraccambiare, una tensione al dare collettivo che non lega donatore e beneficiario ma tutti i membri della comunità. Raramente avviene che un dono sia direttamente contraccambiato, poiché di solito il flusso dei beni va da chi ne possiede di più a chi ne possiede di meno, ma ciò non modifica l’istinto del donatore a donare e del beneficiario a proseguire il flusso dei beni nella direzione che egli vorrà appena gli sarà possibile. Ne consegue che in questo modello le differenze di beni vengono continuamente riequilibrate o quantomeno fortemente mitigate. E quanto più è alta la cooperazione nel gruppo tanto più la circolazione dei doni è vorticosa e il dislivello “economico” impercettibile.
In particolare il dono del cibo assume un valore unico all’interno di questo meccanismo. Di tutti i beni in circolazione il cibo per sua stessa natura è il più importante per misurare il grado dei rapporti sociali di un gruppo. È rarissimo che il cibo sia oggetto di qualsiasi scambio all’interno della tribù: sarebbe disdicevole per chiunque stabilire una equivalenza del cibo con altri beni o ricchezze. Partendo dal nucleo familiare in direzione di tutti i membri della comunità le distribuzioni di alimenti sono frequentissime. Nessuno può rifiutare di dar da mangiare a chi non ne ha, viceversa tutti sono portati a offrirne spontaneamente agli altri. É ovvio che tale inclinazione risponda ad una precisa strategia volta a minimizzare gli effetti dei fallimenti e dei successi individuali nella ricerca del cibo a vantaggio degli interessi della collettività, intesa come somma di tutte le singolarità.
Nelle società tribali il dono quindi è un terreno di sintesi dei rapporti sociali, una pratica tesa a mantenere in armonia ed equilibrio la comunità, un modo di realizzare appieno una condizione di perpetuo accordo tra individui in cui ognuno deve tutto a tutti, concede tutto a tutti e riceve tutto da tutti.
L’economia tribale è bellissima, giusta, naturale.
Grazie per quest’altro bellissimo articolo.
Mi piacerebbe sapere se sei antropologo o fai questi studi per passione.
Grazie a te Gianni per essere un lettore sempre presente. No non sono un antropologo anche se nel mio percorso di studi (storico) ho avuto esami di antropologia. Ho poi approfondito il tema per passione e per difendere la causa dei popoli tribali. Comunque i miei articoli sono quelli di un profano a cui più che dare informazioni scientifiche interessa sollevare la questione tribale.
Grazie del “dono” del tuo scritto. Ah! se tutti i giornalisti scrivessero per passione come voi qui e non per soldi…