di Matteo Minelli
Homo homini lupus.
La civiltà, ovvero quel moloch di cultura, economia, politica, religione che da 5500 anni fa la voce grossa nel corso della storia, non fa altro che ribadire questo assioma trito e ritrito. Un postulato assoluto che siamo soliti collegare alla figura e all’opera di Hobbes, sebbene sia stato Freud a coniare nella sua chiave definitiva la celeberrima citazione. Una sentenza che, in tutte le svariate declinazioni, da almeno venticinque secoli viaggia di bocca in bocca tra filosofi, storici, dotti, santi, cantastorie e scienziati un po’ improbabili.
Da Plauto a Tucidide, da Sant’Agostino a Tommaso d’Aquino, da John Owen a John Adams passando per Machiavelli e Kant fino ad arrivare a Schopenauer, una nutritissima schiera di “pensatori” ha incessantemente alimentato il fantasma di una natura umana avida, meschina, cattiva ed egoista.
Che sia tutta colpa del peccato originale o del nostro discendere dalle ceneri dei perfidi Titani, o ancora dal nostro bagaglio genetico troppo affine a quello dei gorilla, fatto sta che sembriamo proprio essere inclini alla sopraffazione dei nostri simili.
E così l’uomo per poter tenere a freno i suoi malefici istinti deve gioco forza assoggettarsi a stati e governi capaci di imprigionare queste sue tremende pulsioni. Ma quale stato e quale governo? “Menti raffinatissime” hanno prodotto un numero pressoché infinito di riflessioni, studi, libri e articoli in cui ci si è domandati come organizzare le istituzioni statali e governative. Ed è evidente che se ancora oggi ci si interroga su questo tema è sia perché non siamo affatto soddisfatti dai modelli attualmente in auge sia perché riteniamo impossibile sviare questo dibattito.
A nessuno, o meglio a pochissimi, viene in mente che in fondo si potrebbe vivere senza stato e senza governo. E questo nonostante tutte le forme di stato e di governo abbiano dimostrato nel corso della storia di essere un coacervo inestricabile di fallimenti, contraddizioni e violenza più o meno gratuita. E se invece non fosse così? Se questa idea di un’umanità barbarica e violenta fosse soltanto una visione culturale instillata nelle nostre menti e trasmessa di individuo in individuo nel corso dei millenni? Se quello stato di bellum omnium contra omnes non fosse mai esistito?
A questo punto dell’analisi sarebbe sufficiente una piccola digressione per dimostrare quanto imperatori, sacerdoti e legislatori, faraoni e rajah, consiglieri e senatori abbiano cercato in ogni modo di instillare nella mente dei propri sudditi, cittadini e seguaci l’idea che senza uno stato e un governo saremmo solo delle belve inferocite sempre pronte ad azzannarci reciprocamente; e dimostrare allo stesso tempo quanto questa idea abbia condizionato la storia di una parte dell’umanità. Per almeno 5000 anni abbiamo abbattuto tiranni e oligarchi, dittatori e scia; abbiamo sostituito i parlamenti ai monarchi, gli eletti ai nominati, il diritto degli uomini a quello di Dio; abbiamo modificato le istituzioni, scritto costituzioni e inventato associazioni, sindacati, partiti; eppure non siamo mai riusciti a superare quello steccato invalicabile edificato sull’idea che no, non possiamo vivere e prosperare senza un governo.
E tutto ciò è avvenuto mentre lì, proprio davanti ai nostri occhi, dalle steppe dell’Asia centrale ai deserti del Sahara, dai ghiacci della penisola di Terranova alla foresta Amazzonica, uomini e donne sono vissuti senza che un re, un governo e uno stato ne limitassero le libertà e ne condizionassero l’esistenza. Ancora oggi queste comunità ci dimostrano empiricamente che è possibile costruire società in cui non esiste la coercizione istituzionale e in cui gli individui godono di spazi di autodeterminazione e di partecipazione alla vita pubblica della comunità che noi possiamo solo sognarci di avere. Ma noi uomini civilizzati non avremmo mai potuto accettare l’esistenza di questi esempi perfettamente funzionanti di Anarchia Selvaggia, che di fatto rendono carta straccia parecchie pagine di molti cosiddetti “grandi pensatori”. Perciò abbiamo preferito negare l’evidenza ed opporre una serie di argomenti approssimativi racchiusi in due correnti tuttora in auge. Per la prima, semplicemente, le società “primitive” non sarebbero realmente anarchiche poiché ogni comunità ha il suo “capo” che proprio come i re barbari del basso medioevo possiede potere di vita e di morte su tutti gli individui del gruppo. Per la seconda scuola di pensiero invece questo stato di anarchia sarebbe soltanto sinonimo di incompiutezza: l’organizzazione sociale di questi uomini “selvaggi” rappresenterebbe una forma embrionale ed apolitica dell’autentica società umana, un bambino che deve ancora crescere.
Entrambe le tesi sono piuttosto etnocentriche e poco supportate da riscontri concreti.
Le società dell’Anarchia Selvaggia sono evolute, adulte e compiute. Spesso rappresentano la sintesi di un percorso lungo migliaia di anni. Un percorso, è bene sottolinearlo più volte squisitamente politico. Un percorso caratterizzato dal rifiuto netto e collettivo dello Stato. Se queste comunità non hanno uno stato non è per infantilismo, bensì è perché esse non lo vogliono. Rifiutano qualsiasi rapporto di dominazione interpersonale e frappongono ostacoli di ogni natura alla creazione di un organo di potere separato dalla società. È proprio questa la straordinaria forza delle tribù: organizzare società nelle quali il potere coincide perfettamente con il corpo sociale della comunità. Un potere indivisibile e soprattutto inalienabile. Ne consegue che quelli che noi chiamiamo, con un linguaggio tutto civilizzato capi, e che l’antropologia definisce invece Big Men, sono figure lontane anni luce da re, rappresentanti del popolo, parlamentari e presidenti. Come dimostrano molti studi etnologici compiremmo infatti un grave errore confondendo il ruolo che il prestigio personale può donare con l’effettivo potere che da esso deriva. I “grandi uomini”, peraltro presenti solo nelle comunità di determinate dimensioni, hanno raggiunto una posizione di prestigio attraverso il duro lavoro proprio e del nucleo familiare a cui appartengono. Hanno accumulato beni sfruttando se stessi e la parentela al fine di produrre un surplus da donare al resto della comunità (sì, avete capito bene!), avendo in cambio solo (si fa per dire) gratitudine e rispetto.
Tale meccanismo il cui premio finale è il più delle volte una dose massiccia di autostima e orgoglio è diametralmente opposto a quello che caratterizza le società statalizzate in cui i leader gestiscono e si spartiscono tutti i beni realizzati dalla comunità. Paradossalmente i Big Men sono oggetto di una sorta di sfruttamento da parte degli altri membri del villaggio, che grazie ai doni ricevuti possono permettersi di lavorare molto meno di coloro che noi consideriamo loro capi. Questo rapporto, in cui è palese quale sia la parte che nutre un obbligo verso l’altra, non è mutabile. Qualora il Big Man tenti di invertire il flusso dello scambio e trasformare il suo prestigio in potere la reazione della comunità non tarderebbe a manifestarsi: esilio e talvolta omicidio sono i mezzi utilizzati per impedire l’avvento di quello spettro che è la divisione sociale.
È evidente: la società tribale più che essere una società senza stato è una società contro lo stato (come ha raccontato magnificamente Pierre Clastres). Risulta perciò difficile immaginare un punto di incontro, un continuum tra i figli dell’anarchia selvaggia e i figli della Civiltà, tanto ampia è la distanza che separa l’organizzazione politica degli uni da quella degli altri. Appare più semplice immaginare che la comparsa dello stato, il malencontre, come già nel cinquecento lo definiva quel genio ineguagliabile di Étienne de la Boétie, sia stato un grave punto di rottura di un equilibrio naturale sapientemente conservato per decine di migliaia di anni dalla nostra specie.
Concludendo possiamo affermare che Yanomani e Kung, così come Seminole e Guaranì ci insegnano che l’uomo è nato per godere di una libertà assoluta e non limitabile, tanto lontana dal libertinaggio individuale quanto dal liberalismo collettivo. Una libertà autentica realizzata in società perfettamente compiute, cementate da solidi legami interpersonali e basate sul rifiuto totale di organi di potere estraneo alla comunità. Una libertà che può sopravvivere solo in un rapporto tra pari, poiché ogni relazione di dominio risulta mortale per quel modello sociale. Una libertà che anche noi uomini della Civiltà abbiamo dentro e che dovremmo incessantemente cercare di far riemergere.
Leggi anche gli altri articoli della rubrica #oltrelaciviltà: “Oltre la Civiltà, la riscossa della Tribù nel terzo millennio“, “Distruggere la Civiltà per salvare la specie”, “L’uomo è in via di estinzione e finge di non saperlo”
Stupendo articolo che condivido con tutto il mio cuore e la mia mente.
Vorrei aggiungere che la “tribù” normalmente estende questa mancanza di dominio anche al resto della “natura” che quasi mai domina a proprio favore, ma nella quale “convive” a pari diritti con gli altri esseri viventi.
Grazie mille Gianni, i tuoi commenti sono apprezzatissimi.