di Matteo Minelli
C’è uno spettro che si aggira per il mondo: il suo nome è Civiltà. Un malato terminale aggrappato con le unghie e con i denti alla vita, pronto a trascinare nell’oblio la nostra specie. Per sopravvivere come esseri umani non ci resta che darle il colpo di grazia prima che sia il pianeta a fare la parte del boia, eseguendo una sentenza nella quale finiremmo, nostro malgrado, ad essere protagonisti.
Ma una volta uccisa la Civiltà, cosa ci aspetta? La risposta sembrerebbe ovvia perché l’abbiamo imparata tutti a memoria: caos, distruzione, terrore, fame, miseria, paura, morte. Oltre la Civiltà c’è la nostra natura originaria: brutale, rozza, sporca, in una parola animalesca. Una natura che abbiamo faticosamente soggiogato in secoli e secoli di civilizzazione, appunto. Una natura che riemerge sporadicamente nella nostra società in tutte le forme di violenza, di sopruso, di sopraffazione, di ingiustizia che esercitiamo l’uno sull’altro. Il viaggio della specie dunque non sarebbe nient’altro che un percorso di allontanamento dalla sua essenza primigenia, un tentativo mai pienamente riuscito di emanciparsi da se stessa e dalla sua selvatichezza.
Niente di più falso.
Il postulato secondo cui l’uomo per natura è schiavo della sua “animalità” e solo tramite la cultura riesce a contenere questi stimoli malvagi è un’idea bugiarda e soprattutto pericolosa. È bugiarda perché introduce una dicotomia incolmabile tra natura e cultura, alimentando una contrapposizione violenta tra due dimensioni che nell’uomo come in nessun altro essere vivente sono non soltanto correlate ma intrinsecamente fuse. Ed è molto pericolosa poiché finisce per alimentare una profezia che non può non avverarsi: quella secondo cui siamo irrimediabilmente sbagliati e qualunque sia la strategia che mettiamo in atto per mitigare la nostra essenza finiremo comunque per fare del male ai nostri simili, ad ogni forma di vita, al pianeta, all’universo intero. In realtà come sostengono numerosi studi antropologici e paleontologici, la nostra cultura è la nostra natura. Nei tre milioni di anni che separano la comparsa dei primi ominidi sulla terra alla venuta dell’homo sapiens ciò che ha fatto la differenza più di tutto nella nostra evoluzione è la trasmissione del bagaglio culturale che ci siamo portati dietro. E se oggi siamo arrivati a questo tanto profetizzato anno zero lo dobbiamo alla misera cultura che la Civiltà ha trasmesso. Ed è questa cultura che dobbiamo cancellare per salvarci come specie.
Oltre la Civiltà e la sua cultura non c’è il caos e neppure il deserto, c’è semplicemente un’altra idea dell’uomo e un’altra idea di società. Un’idea molto più antica, molto più affidabile, molto più incline alle nostra esigenze.
Oltre la Civiltà c’è la Tribù.
L’opinione comune tra le genti di tutto il globo, alimentata da informazioni prive di ogni base scientifica ed empirica, veicolata incessantemente dai media e ribadita nei dialoghi con il prossimo, è che popoli indigeni e tribali siano i diretti discendenti dei popoli primitivi, e che pertanto rappresentino gli ultimi residui di società senza passato e senza futuro, in cui la storia evolutiva delle specie si è fermata ab aeterno ad un indefinito anno zero. Insomma l’opinione comune è che l’altro da noi, il non civilizzato sia soltanto “un selvaggio.” E come tale sia mentalmente ritardato e moralmente riprovevole, incapace di regolare i suoi istinti più bassi. Sia violento e bellicoso, prigioniero di una società in cui l’omicidio, la ferocia, il cannibalismo sono pane quotidiano. Sia affamato, malnutrito, condannato ad una condizione di bestiale sudditanza nei confronti dell’ambiente che abita, inabile a piegare la natura ai suoi bisogni più elementari. Sia sporco, dalla salute precaria, incompetente nell’affrontare ogni tipo di malanno, sempre agonizzante fino a raggiungere una morte condensata di sofferenze e paure. Sia superstizioso, ignaro delle leggi che regolano il mondo, privo delle basi intellettive indispensabili a comprendere i grandi fenomeni che ci circondano. Sia, appunto, un uomo del passato, residuo di mondi scomparsi, modello di statica arretratezza, la cui sorte è segnata dall’inesorabile avanzata del progresso.
In realtà i popoli indigeni contano ancora oggi circa 370 milioni di individui sparsi in tutte le latitudini del pianeta ( ovvero il 6% della popolazione globale, più dei cittadini degli Stati Uniti d’America). Vivono in 70 nazioni, parlano migliaia di idiomi, hanno la pelle di tutti i colori; si differenziano per stili di vita, tradizioni, costumi e religioni, e tra di loro una vasta parte (170 milioni) vive ancora in comunità tribali. Non sono affatto la copia in salsa contemporanea dei cavernicoli in tanga e clava, anzi, sono società profondamente dinamiche che hanno seguito e seguono un proprio percorso evolutivo, pieno di slanci in avanti e contaminazioni esterne. Hanno stili di vita attivi, sono organizzati in strutture sociali complesse ed efficienti, si dimostrano capaci di elaborare precisi codici morali e pensieri avanguardisti, possiedono idee chiare sull’avanzamento tecnologico, sullo sviluppo e sull’idea di progresso. Mediamente le società tribali sono meno violente delle nostre, la risoluzione dei conflitti interni avviene il più delle volte in maniera pacifica e conciliatoria. Si dimostrano all’avanguardia nell’utilizzare da tempi immemori alcuni istituti giuridici e sociali che in occidente si sono affermati negli ultimi cinquant’anni e che restano sconosciuti in buona parte del mondo. I loro uomini, le donne, i bambini e i vecchi si ammalano e muoiono esattamente come noi; l’incidenza e la mortalità di alcune malattie è nettamente superiore nei popoli tribali mentre altre sono praticamente sconosciute. La speranza di vita è indubbiamente più breve di quella delle società occidentali ma in parecchie società tribali è superiore a quella di diversi paesi dell’Africa e del Medioriente. Dedicano una piccola parte della giornata al procacciamento del cibo e delle altre risorse necessarie alla sopravvivenza; trascorrono gran parte del tempo in attività ludiche, ricreative e culturali. Praticano nella maggior parte dei casi culti religiosi animisti che ad un ateo possono sembrare altrettanto irrazionali di quelli cristiani o musulmani, ma che d’altro canto a differenza di quelli cristiani e musulmani non hanno la pretesa di essere infallibili e universali.
Insomma gli uomini tribali sono uomini come noi e allo stesso tempo diversi da noi e la Tribù non è altro che una forma di organizzazione sociale, politica ed economica tipicamente umana.
E in questo tempo, nel quale emerge in modo chiaro e drammatico il fallimento pratico e spirituale di tutto ciò che chiamiamo Civiltà, in cui le risposte che la nostra cultura cerca di dare alle grandi domande antropologiche, sociologiche ed ecologiche si dimostrano incerte, pericolose, a tratti drammaticamente errate, dobbiamo guardare con altissima attenzione, considerazione profonda e una certa dose di spirito di emulazione a coloro che vivono con intima sensibilità, straordinario acume, responsabile partecipazione e soprattutto incondizionato rispetto per la terra. Perché, ben lontane dall’essere un giorno che si avvia al tramonto, le società tribali guardano al futuro con la tenacia, la forza, la fiducia in se stesse che soltanto chi è da sempre minacciato nella sua più intrinseca essenza può possedere.
Leggi anche i precedenti articoli della rubrica #oltrelaCiviltà: “Distruggere la Civiltà per salvare la specie”, “L’uomo è in via di estinzione e finge di non saperlo”
Altro bellissimo articolo che condivido.
Anch’io considero la tribù la migliore organizzazione sociale per noi esseri umani.
Vorrei aggiungere che numericamente la tribù si compone di una media di quaranta esseri umani, ed è autosufficiente completamente o quasi.
Tutti si conoscono fra di loro.