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di Luca Mikolajczak

Giovanni di Chartres diceva che siamo nani sulle spalle di giganti per esprimere il rapporto di dipendenza della cultura moderna rispetto a quella antica: possiamo vedere più lontano non per l’acutezza della nostra vista o l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo portati in alto dalla grandezza dei giganti.

L’impressione dinanzi al maestro Giuseppe Fioroni è di essere un nano al cospetto di un gigante della cultura, intesa non come erudizione, ma fertile patrimonio di saperi radicato nella terra e nel cuore, oltre che nella mente.

È dal sentimento, oltre che dalla dedizione instancabile, che nasce l’arte di questo signore dalla barba candida e dallo sguardo accogliente.

Pittore per diletto sin da ragazzino e per professione dal 1974, Giuseppe si è fatto strada nel mondo dell’imprenditoria con umiltà e sana testardaggine, fino a dare lavoro a milleduecento dipendenti, lui primo e indefesso lavoratore che conosce i ritmi della natura e dell’uomo.

Ma l’estro pulsava prepotente e alla fine ha avuto la meglio: abbandonato il negotium, Fioroni si è dato anima e corpo all’otium, libero di assecondare con colori e pennelli i viaggi dello spirito.

Le tele sono il sussurro di un mondo ancestrale, fatto di streghe, zingari, sirene, saltimbanchi e suonatori di fisarmonica. Uno dei tanti strumenti accarezzati da Peppe.

Quando la paura del buio e dei lupi imponeva la veglia e, tra un bicchiere di vino e due pannocchie abbrustolite, si creava la magia della condivisione: la festa del villaggio era un brulicare spontaneo e necessario a cui si accostavano santi e diavoli. Tutti erano invitati a partecipare a questi focolari di esorcismo domestico, relitti di un mondo leggendario in cui contavano le parole pronunciate, gli abbracci, le canzoni improvvisate dopo un calice di troppo. La poesia nella concretezza che non c’è più.

L’eclettico Fioroni non si accontenta però di fare il cantastorie.

Vedendo che la sua amata città soffre, non può esimersi dal curare il male che l’affligge, invocando in suo aiuto Artemisia.

Erige un tempio in suo onore: nel 2001 anche Perugia ha la sua galleria d’arte contemporanea nel cuore del centro, in via Alessi 16. Uno spazio in cui mescolare le opere delle pietre miliari del Novecento -Schifano, Dottori, Burri, De Chirico sono solo alcuni degli ospiti illustri che qui hanno trovato degna dimora- con i lavori di giovani leve del panorama artistico odierno.

Gli anni passano e l’artista, esposto a Washington come a Berlino, apprezzato dai paladini Philippe Daverio e Vittorio Sgarbi, si accorge con grande rammarico che i concittadini non rendono omaggio alla sua Artemisia con l’ardore dovuto.

Confessa così di voler dare un’ultima chanche a Perugia, diffidente per esperienza (sempre in lotta col papa…), minacciando di trasformare lo spazio in un bowling. Ma, mentre parla, capiamo subito che ci sta provocando: la fiamma deve continuare ad ardere e lui è il primo a salvaguardarla.

Fioroni, prima di congedarci, mostra orgoglioso degli schizzi fatti la sera prima. Pare voglia cimentarsi con un Grifo, simbolo alato della nostra città.

La galleria di arte contemporanea Artemisia è un dono fatto all’acropoli talvolta restia ad accogliere il nuovo. Oltre ad esporre opere che in molti casi sono vere rarità, la galleria ospita conferenze e letture. Incuriosirsi è un obbligo.

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